Medicina Democratica
Petrolchimici

Petrolchimico. Condannati cinque dirigenti Montedison.



Pubblicato il 15 dicembre 2004
di: Redazione (Autore/i o Autrice/i in calce all’articolo)




Tullio Faggian è un piccolo cuneo che ha inceppato le difese della Montedison. Tullio Faggian era uno dei tanti operai del Petrolchimico, un «autoclavista» ignoto al mondo e perfino alla sua fabbrica, la quale ha perso per strada le vecchie schede, e non sa più dove diavolo lavorasse negli ultimi decenni. Tullio Faggian è morto, a 63 anni, l’11 ottobre del 1999, per «angiosarcoma epatico», un tumore del fegato, il più tipico dei tumori provocati dal Cvm (cloruro di vinile). Grazie - se così si può dire - alla sua morte, da mercoledì 15 dicembre 2004 i vertici della vecchia Montedison hanno la fedina penale formalmente sporca: condannati in cinque, ad un anno e sei mesi di reclusione, per omicidio colposo.

Non che non siano stati ritenuti responsabili di tutti i decessi, e malattie professionali, del Petrolchimico. Ma le altre morti erano troppo lontane nel tempo, non superavano il 1990: di conseguenza, reati prescritti. Faggian, scomparendo tardi, ha fatto un grande dispetto.

La fabbrica della morte. Sono le 11 quando Francesco Aliprandi, presidente della corte, entra nell’aula-bunker con la sentenza d’appello del processo per i quasi 200 morti ed i disastri ambientali del Petrolchimico di Porto Marghera. È il sostanziale capovolgimento della assoluzione generale del primo grado. Ad Aliprandi sono bastati, a decidere, un giorno e mezzo di camera di consiglio. Legge: «In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia... ». Si capisce che qualcosa è cambiato. A partire dall’esordio: dichiara il «non doversi procedere» nei confronti di Eugenio Cefis perché il reato è estinto a causa della recente morte dell’imputato: non è la formula di una assoluzione. Né sono assoluzioni le raffiche di «non doversi procedere» nei confronti dei rimanenti 28 imputati per quasi tutti i reati: le lesioni personali colpose - cioè le epatopatie e le malattie professionali - gli omicidi colposi, la mancanza di impianti aspiratori in fabbrica, le contravvenzioni ambientali: tutte per «intervenuta prescrizione».

Resta quel piccolo imprevisto, Tullio Faggian. All’inizio del primo grado era vivo, e tra i malati: epatopatia. «Compatibile con l’alcool», insinuavano i professori delle difese. È morto durante il primo processo, almeno ha evitato di ascoltare il blocco delle assoluzioni di allora. Per lui, solo per lui, Aliprandi pronuncia adesso le condanne. Riguardano Alberto Grandi, ottantenne vice e successore di Cefis, ex ad di Montedison, poi presidente dell’Eni; Emilio Bartalini, oggi novantaduenne, resposabile del servizio sanitario della Montedison tra 1965 e 1979; Renato Calvi, 84 anni, direttore tra 1975 e 1980 della divisione petrolchimica; Giovanni D’Armino Monforte, 77 anni, ex vicepresidente Montefibre; e infine il ragazzino del gruppo, Piergiorgio Gatti, 73 anni, altro ex amministratore delegato del gruppo chimico.

La colpa. Tre anni fa, il giudice Salvarani aveva già riconosciuto il «nesso di causalità» tra esposizione al Cvm e tumori e malattie. Ma aveva pienamente assolto tutti ricorrendo ad uno spartiacque temporale: fino al 1973-74 la cancerogenicità del cloruro di vinile non era nota; dopo di allora, la Montedison era corsa ai ripari. C’era il nesso, non c’era la colpa. L’appello ribalta. C’è il nesso e c’è «anche» la colpa: non è vero che dopo il 1973 la Montedison avesse realizzato gli impianti necessari, li ha ritardati almeno fino al 1980. Lo stesso vale per gli scarichi idrici in laguna. È una impostazione che spalanca le porte ad una serie di azioni civili - i danni non si prescrivono - anche in tema ambientale, e l’avvocato dello Stato, Giampaolo Schiesaro, si frega le mani. Dalla Montedison si è già fatto consegnare 600 miliardi, adesso punta sull’Eni, «solo per gli scarichi in laguna calcolo un danno attorno ai 10.000 miliardi di vecchie lire».

Il pm che insiste. Se c’è un vero, autentico vincitore, però, è l’ipercaparbio pm Felice Casson, un magistrato che, alla fine, non ha mai sbagliato un processo. Dopo Peteano, Gladio, Fenice e bombe al tribunale di Venezia, il Petrolchimico pareva il suo primo inciampo. Nelle motivazioni assolutorie, il giudice Salvarani aveva accusato il pm di «artificiose forzature», «rappresentazione antistorica degli eventi», «tesi complottistica», «ricerca della notizia ad effetto... ». Una demolizione. Casson ha sostenuto l’accusa anche in appello, affiancando il sostituto pg Bruni. Ha trovato ragione. Adesso dice: «Il mio pensiero va agli operai e alle vittime di Porto Marghera: mi dispiace solo che dopo tanto tempo non si sia potuta sanzionare pienamente la responsabilità di chi ha creato tanti problemi alla vita in fabbrica, ed a Marghera. Questo processo andava fatto prima. Vent’anni fa c’erano già tutte le condizioni: e non ci sarebbero state tante prescrizioni». Vent’anni fa, giusti giusti, Casson stava arrestando un generale e un colonnello dei carabinieri, Mingarelli e Chirico, coinvolti nella strage di Peteano. Sospira, il magistrato: «C’era il terrorismo. C’era un altro contesto storico. C’erano altre sensibilità. C’era il ricatto occupazionale al Petrolchimico... ». E non c’era ancora la denuncia di un altro caparbio, l’ex operaio Gabriele Bortolozzo. Non importa. Vecchi operai, vedove, orfani, si stringono attorno al magistrato, per una volta sorridenti, gli danno pacche alle spalle, strette di mano. E’ il suo dichiarato mondo di riferimento.

Sfuggire alla giustizia. Casson non mollerà, ci sono altri morti recenti tra gli ex del Petrolchimico, e due sono casi di angiosarcoma, insomma altri processi in vista, ora che la strada è spianata. E un altro lo ha avviato per i morti d’amianto. Attorno a lui ed agli operai ci sono altre facce liete, le parti civili, Wwf, Legambiente, Greenpeace, Comune, sindacati... «La giustizia ha battuto un colpo», dice il verde Gianfranco Bettin - e intanto gli telefona Marco Paolini, che al Petrolchimico ha dedicato uno dei suoi monologhi - «finalmente una pagina di speranza». Un rammarico, però, ed è ovvio: «La prescrizione sta diventando il principale strumento per sfuggire alla giustizia. E può andare ancora peggio, se il governo riduce ulteriormente i termini». Casson gli fa eco, almeno su un versante: «Già oggi i reati ambientali si prescrivono dopo 4 anni. È ridicolo: sono processi delicati e complicati, non fai in tempo ad istruirli che il reato è già prescritto». Cvm: come volevasi mostrare.

di Michele Sartori.




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