PRIMUM VIVERE, ARTICOLO DI APERTURA DI LEFT n. 44 CON UNA INTERVISTA A MEDICINA DEMOCRATICA

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Riportiamo sotto il testo del pezzo di apertura del nuovo numero di LEFT https://left.it/left-n-44-30-ottobre-2020/ che contiene una intervista a Marco Caldiroli per Medicina Democratica .

PRIMUM VIVERE di Leonardo Filippi

Convivenza sotto il medesimo tetto, attività di gruppo, ambienti affollati, ma pure asintomatici non individuati, superdiffusori e contesti che amplificano il contagio. Sono i componenti del “motore” che muove la pandemia di Covid-19 elencati da alcuni ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora, in un contributo pubblicato sulla rivista Science.

La maggior parte dei contagi, indicano gli scienziati, avviene tra le mura di casa. Stando ai primi studi sul contact tracing, e ad un grande studio su 59mila contatti di casi positivi in Corea del Sud, i contatti domestici di un infetto sono esposti ad un rischio di essere contagiati oltre sei volte più grade rispetto a quello che corrono gli altri contatti stretti. Ma il pericolo è elevato anche nelle carceri, nei dormitori, negli ospedali e nelle case di cura, dove i rapporti ravvicinati sono frequenti, e generalmente tra persone di età più avanzata.

In casa e in questi luoghi, però, il virus arriva dall’esterno. A livello di comunità, dicono ancora i ricercatori, la trasmissione dell’infezione è fortemente influenzata dal ruolo degli asintomatici, che sono portatori di una carica virale simile a quella dei sintomatici, ma continuano più spesso a circolare. Proprio loro sono i candidati perfetti per essere “superdiffusori”, ossia autori del contagio contemporaneo di più persone. Eventi di superdiffusione sono stati documentati in cori, centri commerciali, eventi religiosi. Esistono inoltre contesti dove il contagio può venire amplificato se più infezioni si ripetono in rapida successione, come si è registrato in mattatoi, chiese, scuole. L’azione dei superdiffusori, sommata a questo meccanismo di amplificazione, potrebbe spiegare perché il 10% dei positivi al Covid è responsabile dell’80% dei contagi. Si tratta del fenomeno noto come “sovradispersione”, già osservato in altre patologie come influenza e morbillo, per cui la maggior parte degli infetti non trasmette il virus in maniera significativa, e dunque occorre arrivare a un buon numero di casi perché l’epidemia possa esplodere in maniera evidente.

A queste scoperte si aggiungono le annotazioni del recente monitoraggio settimanale sul Covid dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che parla di 7.625 i focolai attivi tra il 12 e il 18 ottobre, la maggior parte dei quali «continua a verificarsi in ambito domiciliare (81,7%)», che però, al momento, «rappresenta un contesto di amplificazione della circolazione virale e non il reale motore dell’epidemia». Mentre «sono in aumento i focolai in cui la trasmissione potrebbe essere avvenuta in ambito scolastico», anche se «la trasmissione intra-scolastica appare ancora limitata (3,5% di tutti i nuovi i focolai in cui è stato segnalato il contesto di trasmissione)».

Certo, l’Istituto segnala anche un «forte aumento di casi per cui i servizi territoriali non hanno potuto individuare un link epidemiologico», pari al «43,5%» di quelli censiti. Leggi: i dati sui luoghi di contagio sono parziali, perché sono stati tracciati meno del 60% dei casi. Ad ogni modo, tra le varie contromisure suggerite nel report, ci sono «restrizioni nelle attività non essenziali e della mobilità». Nei trasporti e in molte attività produttive.

Ultimo dato: proprio sui posti di lavoro si sarebbero verificati in Italia 54.128 contagi, il 17% del totale dei casi registrati dall’Iss. Lo si desume dalle denunce di infortunio a seguito di Covid presentate da gennaio al 30 settembre, come chiarito nell’ultimo rapporto Inail sul tema (e dunque la percentuale potrebbe essere più alta, se si considera che non sempre gli incidenti di questo tipo vengono denunciati e che può essere complesso talvolta individuare il luogo di contagio).

Insomma, premesso che la scienza deve ovviamente dare ancora molte risposte rispetto alle modalità di contagio, che le autorità sanitarie italiane non mettono a disposizione in modo esteso i dati disaggregati relativi ai luoghi di contagio (a differenza dell’Istituto Koch in Germania, per fare un esempio) e che la macchina del tracciamento in Italia è al collasso, possiamo comunque trarre alcune conclusioni, almeno a livello nazionale.

Il fenomeno della sovradispersione, i contagi domestici che amplificano ma non generano l’epidemia, la relativa sicurezza delle scuole, e i dati Inail ci fanno porre l’attenzione sulle attività produttive. Quale ruolo hanno avuto, dunque, i luoghi di lavoro, e le precauzioni insufficienti adottate dal governo e Regioni, nella diffusione della pandemia in Italia?

«Nella prima fase della pandemia, con le aziende aperte senza alcuna protezione dei lavoratori, le attività produttive hanno funzionato da “sliding doors” per la diffusione del virus , in modo analogo alle strutture sanitarie», dice Marco Caldiroli, presidente di Medicina democratica (Md), associazione in prima linea nella difesa dei diritti dei pazienti e degli operatori sanitari.

Mentre «nella “seconda ondata” – prosegue – si è sicuramente accentuato il ruolo del trasporto collettivo rispetto al momento aziendale, con un maggior peso dell’infortunio Covid “in itinere”. In ogni caso vi sono stati importanti focolai in grandi aziende della trasformazione alimentare, come nel settore della lavorazione delle carni, che non hanno determinato sospensioni produttive».

Spulciando l’ultimo report Inail, inoltre, si ottengono altre informazioni. Tra le denunce di contagio c’è una grande preponderanza di donne e di lavoratori del settore sociosanitario, mentre tra quelle di infortunio con esito mortale causa Covid le cose cambiano, perlopiù riguardano uomini e lavoratori di settori produttivi eterogenei (non solo sanità, ma anche manifatturiero, trasporti, commercio).

«Innanzitutto va ricordato che si tratta di cifre parziali, che non considerano ad esempio i medici di medicina generale, non sottoposti all’obbligo assicurativo Inail – chiarisce il presidente di Md – Guardando ai dati, se confrontiamo quelli di giugno con quelli di settembre non vediamo cambiamenti significativi né nella distribuzione tra ambiti lavorativi delle denunce né nelle classi di età degli interessati. Nella mortalità il fattore che, finora, risulta preponderante è l’età oltre che il sesso maschile (nel 90,3% dei casi riguarda over 50 e l’89,3 % sono uomini). Il 90% dei decessi, inoltre, si concentra tra marzo ed aprile».

Ma come spiegare, dunque, le differenza tra semplici contagi e decessi, in termini di genere e impiego degli interessati? «L’età, che è correlata alla presenza di ulteriori patologie, ha favorito un esito negativo della malattia, mentre la situazione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha determinato in molti casi interventi rianimatori tardivi – chiarisce Caldiroli -. Son questi i fattori che hanno portato ad una distribuzione eterogenea dei decessi, più che il momento e il luogo del contagio. Certo, dai dati sugli infortuni Covid mortali emerge un “cluster” particolare, con l’11,6 % di casi tra chi era occupato in mansioni impiegatizie. Se il contagio di queste categorie può essere correlato ad attività di “front office” quindi di contatto con il pubblico, non è però evidente il motivo di una maggiore mortalità. Mentre la differenza di esito tra maschi e femmine è stata sottoposta a diverse ipotesi che non hanno ancora un esito definitivo. Il dato pacifico è che, per motivi professionali, due terzi circa delle denunce, 38.273, riguardano donne ma i decessi sono circa 1/5 rispetto a quelli degli uomini».

Di fronte a questo quadro, quali sono le criticità più grandi rispetto alle misure “anti virus” sui luoghi di lavoro e sui mezzi pubblici? «Nelle aziende appare spesso difficile realizzare un’organizzazione del lavoro che favorisca distanziamento e utilizzo di protezioni individuali. L’uso di mascherine non certificate (ovvero con certificazioni fasulle o fuorvianti) come pure di “mascherine di comunità” (spesso semplici ritagli di tessuto) anche nei luoghi di lavoro ha certamente peggiorato le cose, come pure l’assenza o la parzialità di interventi di sanificazione corretti. Molte aziende non hanno sanificato i reparti nella loro interezza, o utilizzano modalità, come la nebulizzazione di sostanze, che non sono riconosciute come efficaci contro i virus. Il punto è che nei mesi di tregua non si è intervenuto in modo idoneo nei luoghi di lavoro per prepararsi alla seconda ondata. Non si tratta solo di impreparazione o di errori ma di un approccio errato perché il Servizio sanitario nazionale (Ssn) non è più centrato sulla prevenzione primaria ma solo sulla produzione di “prestazioni”. Ad un certo punto, diversi cittadini erano stati convinti che la tutela della salute dipendesse solo dalla quantità di accertamenti disponibili, ma non è così».

Questi rilievi Medicina democratica li ha condensati in una lettera aperta indirizzata al governo, accusato di non aver «saputo o voluto condurre una strategia unica e unitaria per interrompere le catene del contagio e per circoscrivere la pandemia».

«In sostanza – insiste il presidente dell’associazione per il diritto alla salute – non si è riusciti neppure a far tesoro della “lezione” della prima fase, quando era emersa l’evidente necessità di un ruolo fondamentale dei medici di medicina generale per l’individuazione dei casi e delle Usca (le unità speciali che assistono a domicilio i pazienti Covid, ndr) quali strutture di primo intervento per evitare l’afflusso ai pronto soccorso degli ospedali con l’effetto di contaminazione vicendevole e degli operatori sanitari. L’incapacità organizzativa per la effettuazione di tamponi per i casi sospetti ha determinato ulteriori momenti di contatto tra positivi. Non sono stati assunti operatori come se l’unica necessità fosse aumentare i dispositivi tecnici (letti, reparti) che non possono funzionare senza personale».

Nel frattempo, li governo ha provato a correre ai ripari con un lockdown soft. «I provvedimenti più recenti rappresentano la ricerca di un compromesso tra la necessità di rallentare la diffusione della pandemia e le ragioni economiche. Si è voluto limitare alcune attività produttive, come la ristorazione e il turismo, e sociali, l’istruzione, per ridurre i contatti tra le persone mentre non sono state toccate attività non essenziali, come l’industria bellica o il campionato di calcio. Se il principio generale è chiaro e condivisibile vi sono illogicità nella attuazione delle misure concrete, dove più che una logica legata alla prevenzione ha contato il peso delle lobbies».

Per questo ed altri motivi, il 7 novembre il coordinamento Dico 32 ha organizzato una mobilitazione a Milano, un “cordone sanitario” intorno a Palazzo Lombardia, sede della giunta regionale. «Le richieste di chi scenderà in piazza sono molte – chiosa Caldiroli -. La revisione delle “controriforme”, di cui la Lombardia è stata laboratorio, della riforma sanitaria del 1978. Il commissariamento della sanità lombarda, dimostratasi non all’altezza della situazione. Il potenziamento della medicina territoriale. La fine della concezione privatistica oramai interna anche al settore pubblico.

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