SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.228 DEL 06/10/15

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INDICE

  • Norma CEI 11-27:2014 la definizione delle figure di Persona Esperta e di Persona Avvertita nei lavori elettrici
  • Adattare i luoghi di lavoro alle esigenze dei disabili
  • L’esorbitanza del lavoratore infortunato e la responsabilità del Datore Di Lavoro
  • Agenti cancerogeni e mutageni: i Dispositivi di Protezione Individuale
  • Caduta dall’alto: i requisiti dei sistemi di protezione individuale

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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NORMA CEI 11-27:2014 LA DEFINIZIONE DELLE FIGURE DI PERSONA ESPERTA E DI PERSONA AVVERTITA NEI LAVORI ELETTRICI

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.68

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Buonasera Marco,

Ho necessità di aiuto.

Sono il responsabile manutenzione di una azienda metalmeccanica.

Coordino, tra gli altri, la squadra degli elettricisti incaricati della manutenzione su chiamata e della manutenzione ordinaria degli impianti elettrici di potenza (a 380 V trifase) e di comando (a bassa tensione, al massimo 48 V trifase).

Premetto che so già che i lavori su impianti elettrici possono essere eseguiti solo dalle cosiddette “persone esperte” (PES) o dalle “persone avvertite” (PAV), così definite da una norma CEI, ma non so esattamente quali lavori possono essere eseguiti (in tensione, fuori tensione, ecc.) e soprattutto che corsi di formazione devono fare gli elettricisti per poter essere definiti PES o PAV.

Cordialmente

 

RISPOSTA

 

Ciao,

i criteri per la nomina di PES e PAV non sono di semplice definizione, essendo legati a molteplici fattori, relativi sia alle caratteristiche del personale dipendente (formazione, esperienza pregressa, caratteristiche personali), sia alla tipologia degli impianti.

Essa inoltre può essere confermata o revocata nel tempo, in funzione del mantenimento dell’esperienze e il comportamento lavorativo.

Essa comunque è a carico del datore di lavoro secondo criteri (generici) definiti dalla norma CEI 11-27 edizione 2014.

A seguire ti riporto una mia relazione dove ho sintetizzato quanto definito dalla norma.

In sintesi ti posso dire che requisito fondamentale (ma non sufficiente) per poter essere nominati PES o PAV è la partecipazione a specifici corsi di formazione, per l’acquisizione delle competenze teoriche di livello 1A e/o 2A (vedi nella relazione).

Per tali corsi ti consiglio quelli organizzati direttamente dal CEI che puoi trovare al link:

http://webstore.ceiweb.it/CORSICopertina.aspx?Id=CS140246.

Oltre a questo sono necessari percorsi lavorativi e quindi curricula, ma anche requisiti personali definiti dalla norma, la cui valutazione è a carico del datore di lavoro.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

NORMA CE 11-27:2014 LA DEFINIZIONE DELLE FIGURE DI PERSONA ESPERTA E DI PERSONA AVVERTITA NEI LAVORI ELETTRICI

 

La definizione di PES e PAV è definita dalla norma CEI 11-27 edizione 2014.

Secondo tale norma:

  • persona esperta in ambito elettrico (PES) è “persona con istruzione, conoscenza ed esperienza rilevanti tali da consentirle di analizzare i rischi e di evitare i pericoli che l’elettricità può creare” (punto 3.2.5);
  • persona avvertita in ambito elettrico (PAV) è “persona adeguatamente avvisata da persone esperte per metterla in grado di evitare i pericoli che l’elettricità può creare” (punto 3.2.6).

Tale definizione permette di fare eseguire lavori elettrici solo a personale adeguatamente informato, formato e addestrato sui rischi elettrici, anche in funzione della tipologia di lavoro.

 

Infatti, secondo il punto 6.1.1 e i punti da esso richiamati, l’attribuzione del lavoratore deve variare in funzione del tipo di lavoro e, in particolare:

  • i lavori fuori tensione (punto 6.2) possono essere eseguiti solo da PES o da PAV con livello di competenze 1A e 1B;
  • i lavori in prossimità di parti attive (punto 6.4) possono essere eseguiti solo da PES o da PAV con livello di competenze 1A e 1B;
  • i lavori sotto tensione in bassa tensione (punto 6.3) possono essere eseguiti solo da PES o da PAV con idoneità rilasciata dal datore di lavoro e livello di competenze 2A e 2B;
  • i lavori sotto tensione in media ed alta tensione (CEI 11-15 punto 8.2) possono essere eseguiti solo da persona idonea e abilitata ai sensi della norma 11-15 e del D.M. 04/02/11).

 

La classificazione degli impianti in funzione della tensione di alimentazione secondo la norma è la seguente (punti 3.6.2, 3.6.3, 3.7.1):

  • bassa tensione (BT): “tensione maggiore di 50 V fino a 1.000 V compreso se in corrente alternata o maggiore di 120 V fino a 1.500 V compreso se in corrente continua”;
  • media tensione (MT): “tensione nominale di sistemi oltre 1.000 V se in corrente alternata od oltre 1.500 V se in corrente continua, fino a 35 000 V”;
  • alta tensione (AT): “tensione nominale di sistemi oltre 35.000 V sia in corrente alternata, sia in corrente continua”.

 

La norma definisce poi al punto 4.15 i criteri per attribuire a un lavoratore, se possibile, il profilo di PES oppure di PAV,

Tali criteri non sono legati a regole univoche (corsi di formazione svolti, anni di esperienza, livello contrattuale), ma ad una serie di competenze acquisite dal lavoratore che devono essere valutate complessivamente, anche in funzione della complessità del lavoro elettrico previsto.

Il punto 4.15.1 della norma infatti stabilisce che:

Per valutare correttamente quale profilo professionale (PES o PAV) attribuire a un operatore, è necessario riferirsi a tre requisiti tra loro complementari:

  • il primo aspetto riguarda l’istruzione, cioè la conoscenza dell’impiantistica elettrica e della relativa normativa di sicurezza, la capacità di riconoscere i rischi e i pericoli connessi ai lavori elettrici;
  • il secondo aspetto riguarda l’esperienza di lavoro maturata, quale requisito per poter avere confidenza della conoscenza o meno delle situazioni caratterizzanti una o più tipologie di lavori e della maggior parte delle situazioni anche non ricorrenti;
  • il terzo aspetto riguarda le caratteristiche personali, quelle maggiormente significative dal punto di vista professionale, quali le doti di equilibrio, attenzione, precisione e ogni altra caratteristica che concorra a far ritenere l’operatore affidabile.

Una persona per poter essere definita PES deve possedere tutti i requisiti sopra indicati.

L’operatore è definito PAV, per contro, se non possiede completamente tutti i requisiti sopra indicati, ma li soddisfa comunque almeno in parte, seppure solamente ad un livello di base ed è una figura in evoluzione all’interno della cui definizione trovano posto diversi livelli: essa si trova in situazioni intermedie che comportano una possibile evoluzione verso la condizione di PES.

Per una data tipologia di lavoro elettrico, un operatore è da considerarsi PEC [persona comune] se non soddisfa i requisiti sopra indicati. Tale profilo non prevede alcuna attribuzione formale.

In considerazione dei requisiti personali richiesti agli operatori per l’attribuzione dei profili professionali, le condizioni di PES o PAV attribuite possono anche venir meno nel tempo qualora, per una data tipologia di lavoro elettrico, un operatore non dovesse più soddisfare i requisiti richiesti”.

Come evidenziato bene nell’ultimo capoverso l’attribuzione del profilo PES e PAV non è qualcosa di univocamente e definitivamente definito, ma è anche variabile in funzione del tempo (introduzione di nuove tecnologie degli impianti, complessità del lavoro, formazione svolta).

 

Nel caso di azienda pubblica o privata, l’attribuzione del profilo PES o PAV è compito del Datore di Lavoro (DdL).

Il punto 4.15.2 stabilisce infatti che:

L’attribuzione della condizione di PES e PAV per lavoratori dipendenti è di pertinenza del Datore di Lavoro (DdL).

Detta attribuzione, accompagnata dall’indicazione della tipologia o delle tipologie di lavori cui si riferisce, deve essere formalizzata per iscritto nell’ambito aziendale.

Nel caso di lavoratori dipendenti che a giudizio del DdL risultino senza la prevista formazione teorica, si potrà attribuire loro la condizione di PES o PAV dopo la partecipazione ad una formazione teorica che preveda l’acquisizione delle conoscenze necessarie.

Il DdL può revocare la condizione di PES o PAV qualora vengano a mancare al lavoratore i requisiti per l’attribuzione di tali qualifiche”.

 

Per lavori fuori tensione o in prossimità di parti attive, il PES o PAV deve possedere le competenze definite al punto 4.15.5:

Per le persone che non hanno già i requisiti, la formazione minima ad una PES o PAV (come

definite nella presente norma), per l’esecuzione di lavori, seppure a diversi livelli di conoscenza, può essere sintetizzata strutturandola nei livelli di seguito illustrati”.

 

Le competenze sono suddivise in “conoscenze teoriche” e “conoscenze e capacità per l’operatività”, secondo i contenuti definiti di seguito.

 

Livello 1A – Conoscenze teoriche

Oltre alle conoscenze di elettrotecnica generale e a quelle specifiche per la tipologia di lavoro, la formazione teorica deve riguardare almeno i seguenti aspetti:

  • conoscenza delle principali disposizioni legislative in materia di sicurezza elettrica con particolare riguardo ai principi ispiratori del Decreto Legislativo 81/08 e s.m.i. come chiave d’interpretazione della cultura della sicurezza;
  • conoscenza delle prescrizioni della Norma CEI EN 50110-1 e della presente Norma per gli aspetti comportamentali, di base, delle Norme CEI EN 61936-1 (CEI 99-2) e CEI EN 50522 (CEI 99-3) per impianti AT e MT, e CEI 64-8 per gli aspetti costruttivi dell’impianto utilizzatore in BT, di eventuali altre norme pertinenti alla tipologia impiantistica su cui si dovrà operare;
  • nozioni circa gli effetti dell’elettricità (compreso l’arco elettrico) sul corpo umano e cenni di primo intervento di soccorso;
  • attrezzatura e DPI: impiego, verifica e conservazione;
  • le procedure di lavoro generali e/o aziendali; le responsabilità e i compiti del RI [Responsabile dell’impianto] e del PL [Persona preposta alla conduzione del lavoro];
  • la preparazione del lavoro; la documentazione; le sequenze operative di sicurezza; le comunicazioni; il cantiere;

Il livello 1A deve prevedere anche gli aspetti teorici di cui al livello 1B”.

 

Livello 1B – Conoscenze e capacità per l’operatività

Oltre alle metodologie di lavoro richieste per l’attività, specifiche di ogni azienda, la formazione pratica deve riguardare almeno i seguenti aspetti:

  • definizione, individuazione, delimitazione della zona di lavoro;
  • apposizione di blocchi ad apparecchiature o a macchinari;
  • messa a terra e in cortocircuito;
  • verifica dell’assenza di tensione;
  • valutazione delle condizioni ambientali;
  • modalità di scambio delle informazioni;
  • uso e verifica dei DPI previsti nelle disposizioni aziendali;
  • apposizione di barriere e protezioni;
  • valutazione delle distanze;
  • predisposizione e corretta comprensione dei documenti specifici aziendali, equivalenti ad esempio al Piano di lavoro, ai documenti di consegna e restituzione impianto, ecc.”.

 

Il punto 4.15.5 definisce poi le metodologie di insegnamento:

L’azione formativa si sviluppa comprendendo corsi tradizionali o multimediali, addestramento operativo, simulazioni, affiancamento e/o altre iniziative utili al raggiungimento dello scopo.

Tutte le attività formative svolte devono essere documentate e devono prevedere momenti di valutazione dei risultati raggiunti.

La durata e l’ampiezza dell’attività formativa dipendono da vari fattori tra cui si evidenziano la preparazione scolastica e l’esperienza pregressa. Si raccomanda, comunque, una durata minima per la preparazione teorica (livello 1A) non inferiore alle 10 ore.

La formazione, o parte di essa, può essere svolta sia all’interno sia al di fuori dell’azienda di appartenenza, purché il soggetto formatore sia in possesso delle necessarie conoscenze professionali”.

 

Per lavori in tensione (ma solo su impianti in BT), oltre alle conoscenze sopra richiamate (possesso dei requisiti di PES e PAV e competenze di livello 1A e 1B), occorre una specifica idoneità, definita dal punto 6.3.2:

Condizione per la quale ad una persona è riconosciuta la capacità tecnica e pratica ad eseguire uno o più lavori sotto tensione specificati dal Datore di lavoro.

L’idoneità, inoltre, sottintende il possesso di un insieme di qualità personali e professionali della persona interessata.

Per l’attestazione ed il rilascio dell’Idoneità, il Datore di Lavoro deve accertare che l’operatore abbia le conoscenze teoriche e l’esperienza pratica nell’ambito delle attività previste.

La conoscenza teorica si può ottenere tramite processi formativi conclusi con esito positivo.

I corsi formativi possono essere erogati o dalle aziende, datrici di lavoro, o da altri soggetti esterni alle stesse. In quest’ultimo caso, i soggetti devono rilasciare un attestato di regolare frequenza ai corsi di formazione comprensivo delle valutazioni finali di apprendimento.

Le conoscenze pratiche possono venire acquisite tramite affiancamento della Persona da formare con PES idonee, durante l’attività”.

 

Per lavoratori dipendenti l’attestazione del possesso di tali competenze è a carico del datore di lavoro (punto 6.3.2.1):

Il Datore di lavoro è il responsabile dell’attestazione dell’idoneità per lavori sotto tensione su sistemi di Categoria 0 e I. Tale attestazione può riguardare tutti o parte dei lavori previsti nello specifico campo d’attività dell’azienda/impresa da cui dipende la persona e deve essere formalizzata per iscritto.

Per il conseguimento dell’idoneità, la persona deve possedere le conoscenze teoriche per i lavori sotto tensione di livello 2A e pratiche di livello 2B del punto 6.3.2.3 della presente Norma, rappresentative del lavoro sotto tensione su sistemi di Categoria 0 e I.

Per la valutazione della persona, il Datore di lavoro può assumere a riferimento, una o più delle seguenti attività formative:

  • le attività lavorative e formative pregresse, anche eseguite in affiancamento;
  • la documentazione attestante l’avvenuta frequenza con esito positivo di specifici corsi di formazione, con indicata la valutazione finale del corso espressa dall’organizzazione erogatrice del corso;
  • la formazione svolta in ambito aziendale.

Per il conferimento dell’idoneità, inoltre, il Datore di lavoro deve basarsi sull’accertamento di

altri necessari requisiti della persona quali ad esempio:

  • idoneità psicofisica;
  • curriculum professionale;
  • comportamenti durante l’attività lavorativa svolta, con riferimento alla sicurezza.

Solo dopo tale valutazione completa, il Datore di lavoro può riconoscere l’idoneità ai lavori

sotto tensione su sistemi di Categoria 0 e I.

Il Datore di lavoro può autorizzare a svolgere i lavori sotto tensione solo persone idonee”.

 

Il punto 6.3.2.3 definisce in dettaglio le conoscenze richieste per eseguire lavori in tensione su impianti in BT, specificando che esse sono aggiuntive rispetto a quelle di Livello 1A e 1B:

I livelli qui descritti sono ulteriori rispetto a quelli di livello 1A descritti in 4.15.5. Si raccomanda che la formazione teorica relativa al livello 2A abbia una durata minima di 4 ore”.

 

Le competenze sono suddivise in “conoscenze teoriche” e “conoscenze pratiche”, secondo i contenuti definiti di seguito.

 

Livello 2A conoscenze teoriche di base per lavori sotto tensione

  • Norme CEI 50110-1, CEI EN 50110-2 e CEI 11-27 (con riguardo ai lavori sotto tensione);
  • criteri generali di sicurezza con riguardo alle caratteristiche dei componenti elettrici su cui si può intervenire nei lavori sotto tensione;
  • attrezzatura e DPI: particolarità per i lavori sotto tensione;
  • prevenzione dei rischi;
  • copertura di specifici ruoli anche con coincidenza di ruoli.

Il livello 2A deve prevedere anche gli aspetti teorici di cui al livello 2B”.

 

Livello 2B conoscenze pratiche sulle tecniche di lavoro sotto tensione

Esperienza specifica della tipologia di lavoro per la quale la persona dovrà essere

idonea:

  • analisi del lavoro;
  • scelta dell’attrezzatura;
  • definizione, individuazione e delimitazione del posto di lavoro;
  • preparazione del cantiere;
  • adozione delle protezioni contro parti in tensione prossime;
  • padronanza delle sequenze operative per l’esecuzione del lavoro.

Esperienza organizzativa:

  • preparazione del lavoro;
  • trasmissione o scambio d’informazioni tra persone interessate ai lavori”.

 

La norma specifica (punto 6.3.3) che l’abilitazione per lavori sotto tensione per impianti in BT non ha validità temporale assoluta, ma può essere mantenuta o revocata in funzione della pratica e di successivi addestramenti:

L’idoneità ad eseguire lavori sotto tensione deve essere mantenuta con la pratica o con successivi addestramenti.

La validità dell’autorizzazione al lavoro sotto tensione deve essere rivista ogniqualvolta è necessario, in accordo con il livello di idoneità della persona interessata. È comunque buona norma riesaminare l’idoneità con cadenza annuale.

L’idoneità può essere revocata dal DdL. quando dovesse risultare evidente il venire meno del possesso dei requisiti personali dell’operatore, ad esempio a seguito del verificarsi di palesi violazioni di principi di sicurezza”.

 

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ADATTARE I LUOGHI DI LAVORO ALLE ESIGENZE DEI DISABILI

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Il Decreto Legge n. 76/2013, convertito dalla Legge n. 99/2013, con l’articolo 9, comma 4-ter, ha inserito nell’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 216/2003, il comma 3-bis il quale prevede che, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone disabili, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

 

La decisione del parlamento italiano è, ancora una volta, conseguenza di una sentenza della Corte Europea che ha condannato il nostro paese per non aver messo in atto provvedimenti atti a garantire parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro (articolo 5 della Direttiva 2000/78/EC) evitando così la discriminazione nei confronti dei diversamente abili.

Tale normativa obbliga i datori ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro per garantire alle persone disabili la piena uguaglianza con gli altri lavoratori.

 

Il datore di lavoro deve prendere i provvedimenti più appropriati, in relazione alle esigenze concrete, per consentire ai diversamente abili di svolgere il proprio lavoro, e può evitarlo solo nel caso in cui tali provvedimenti richiedano da parte dell’azienda un onere finanziario sproporzionato e non più solo un aggravio finanziario o organizzativo, come la Cassazione a Sezioni Unite aveva sentenziato nel 1998.

Inoltre la nuova norma ha ricadute anche sull’onere della prova: spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità del ragionevole adattamento.

 

Ai Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza quanto sopra costituisce uno strumento in più per intervenire quando si sia di fronte a tentativi di allontanare dal lavoro persone diversamente abili.

 

A seguire riportiamo l’articolo di Rossella Schiavone Funzionaria del Ministero del Lavoro.

 

 

DISABILI: OBBLIGO DI “ADATTAMENTO RAGIONEVOLE” DEI LUOGHI DI LAVORO

 

L’obbligo per i datori di lavoro di prendere i provvedimenti più appropriati, in relazione alle esigenze concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, svolgerlo e ricevere una formazione, deve portare a un cambiamento culturale nei confronti dei soggetti affetti da limitazioni che ostacolino la piena uguaglianza con gli altri lavoratori.

 

Il Decreto Legge n. 76/2013, convertito dalla Legge n. 99/2013, con l’articolo 9, comma 4- ter, ha inserito nell’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 216/2003, il comma 3-bis il quale prevede che, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

 

Tale modifica è stata resa necessaria per rispettare gli obblighi comunitari a seguito della sentenza del 4 luglio 2013 della Corte di Giustizia UE (Causa C-312/11) che ha condannato l’Italia per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, venendo meno all’obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

 

In realtà la modifica legislativa non sembra aver avuto l’impatto che meritava sul nostro ordinamento, probabilmente perché troppo sottovalutata, ma cominciano ad arrivare le prime sentenze dei Tribunali nei confronti dei datori di lavoro inadempienti e questo dimostra che forse è il caso di approfondire la questione.

 

 

GLI OBBLIGHI IN ITALIA PRIMA DELLA MODIFICA

 

Nel nostro ordinamento, l’obbligo dei datori di lavoro di adeguare i luoghi di lavoro e l’organizzazione aziendale ai lavoratori disabili si scontra con l’orientamento giurisprudenziale, sostenuto dalla Cassazione a Sezioni Unite (Sentenza n. 7755 del 1998), a proposito di inidoneità sopravvenuta, che ha affermato il seguente principio di diritto:

“La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (articoli 1 e 3 della Legge n. 604/1966 e articoli 1463 e 1464 del Codice Civile), non é ravvisabile nella sola non eseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile (alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede) alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (articolo 2103 del Codice Civile) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”.

 

Va da sé, quindi, che fino a poco tempo fa, l’assegnazione del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione che già svolgeva, a una diversa mansione equivalente o addirittura inferiore, poteva essere legittimamente rifiutata dal datore di lavoro se comportava aggravi organizzativi o finanziari.

In pratica il datore non aveva l’obbligo di creare un posto ad hoc per il disabile ma, come correttamente evidenziato da dottrina, lo stesso aveva solo un “obbligo di cercare” e non già un “obbligo di trovare”.

La conseguenza di questo orientamento è stata quindi che il lavoratore divenuto inabile alla mansione attribuita, se non assegnabile a mansioni equivalenti o inferiori disponibili, poteva essere licenziato.

D’altra parte la Corte di Cassazione, con Sentenza n. 10339/2000, aveva ulteriormente chiarito che non è configurabile un onere dell’imprenditore di adottare nuove tecnologie o modificare l’assetto organizzativo.

 

 

COSA E’ CAMBIATO?

 

Con la norma antidiscriminatoria che obbliga i datori ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro per garantire alla persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori, le cose cambiano.

 

Adesso il datore di lavoro deve prendere i provvedimenti più appropriati, in relazione alle esigenze concrete, per consentire ai disabili di svolgere il proprio lavoro, e può evitarlo solo nel caso in cui tali provvedimenti richiedano da parte dell’azienda un onere finanziario sproporzionato e non più solo un aggravio finanziario o organizzativo, come la Corte di Cassazione aveva sentenziato nel 1998.

 

E non basta!

La nuova norma ha ricadute anche sull’onere della prova per cui spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità del ragionevole adattamento.

 

 

L’ACCESSO AL LAVORO

 

La nuova norma impone che i provvedimenti appropriati siano presi dai datori di lavoro anche per consentire ai disabili l’accesso al lavoro, il che, in termini pratici, implica che l’adattamento ragionevole va considerato anche nella fase di incontro fra domanda e offerta di lavoro.

 

A tal proposito si tenga presente che il Tribunale di Bologna, con ordinanza n. 171 dell’11 aprile 2013, ha accolto il ricorso di un infermiere che aveva vinto un concorso presso l’Azienda Ospedaliera di Bologna e, nonostante tutto, non era stato assunto perché dalla visita medica di idoneità era risultato affetto da “epilessia notturna” e, quindi, non idoneo a svolgere i turni di lavoro notturni.

E il ricorso è stato accolto proprio perché il giudice ha ritenuto che, nel caso di specie, dovesse trovare applicazione l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE che obbliga i datori di lavoro a “prendere provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.

 

 

L’AMPIO CONCETTO DI HANDICAP

 

Importantissimo è in questo contesto l’ampio concetto di handicap nella sua definizione comunitaria per capire l’ambito applicativo della modifica normativa.

In genere noi siamo portati a pensare ai disabili, aventi determinati diritti, nell’ambito del diritto del lavoro con riferimento ai lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione della Legge n. 68/1999.

 

Tuttavia la Corte di Giustizia UE, nella citata sentenza del 04/07/13, in cui ha condannato l’Italia, ha sottolineato come, anche se la nozione di “handicap” non è definita nella Direttiva 2000/78/CE, la Corte ha, nella sentenza dell’11 aprile 2013 chiarito che, alla luce della Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità, tale nozione deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

 

Ecco quindi che, nell’ambito dell’adattamento ragionevole del luogo di lavoro, ai fini antidiscriminatori, va considerato portatore di handicap anche il soggetto che abbia una malattia che limiti (tale limitazione deve però essere di lunga durata) l’effettiva partecipazione dello stesso alla vita professionale su una base di uguaglianza con gli altri lavoratori e, quindi, l’infermiere che è affetto da “epilessia notturna” (come nel caso dell’ordinanza del Tribunale di Bologna) e le lavoratrici che per dolori cronici non trattabili, non possono lavorare a tempo pieno (come nel caso delle lavoratrici danesi trattato dalla Corte di Giustizia UE nelle cause C-335/11 e C-337/11).

Nei succitati casi rientra, quindi, nel concetto di “adattamento ragionevole” l’esclusione del primo lavoratore dai turni notturni e la trasformazione dei rapporti di lavoro delle signore danesi, da full-time a part-time.

 

Rossella Schiavone

Funzionario del Ministero del Lavoro ed esperta diritto del lavoro

 

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L’ESORBITANZA DEL LAVORATORE INFORTUNATO E LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 settembre 2015

di Gerardo Porreca

 

In disaccordo la Corte di Cassazione e di Appello sulla responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso a un lavoratore e sull’esorbitanza del suo comportamento tale da interrompere il nesso fra violazioni ed evento lesivo.

 

E’ il periodo questo in cui l’attenzione della giurisprudenza si accentra sulla individuazione del comportamento del lavoratore che ha subito un infortunio quando è da considerare esorbitante e tale da interrompere il nesso causale fra le violazioni in materia di salute e di sicurezza sul lavoro commesse dal datore di lavoro e l’evento lesivo.

In particolare in tale circostanza si registra una diversità di vedute fra la Corte di Cassazione e quella di Appello avendo la suprema Corte annullata una sentenza di assoluzione emessa dalla Corte territoriale che aveva ritenuto esorbitante il comportamento di un lavoratore in occasione dell’infortunio dallo stesso subito per avere preso l’iniziativa di effettuare una operazione che non era di sua stretta competenza.

La Corte di Appello ha riformata una sentenza emessa dal Tribunale con la quale il datore di lavoro di una azienda era stato giudicato responsabile dell’infortunio sul lavoro occorso a un lavoratore dipendente ed era stato condannato alla pena ritenuta equa nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Contrariamente alle decisioni del Tribunale la Corte di Appello aveva infatti mandato assolto l’imputato dal reato ascrittogli.

I fatti, così come ricostruiti nei gradi di merito, sono risultati incontroversi. In un frantoio per la frantumazione di materiali inerti presso il quale era adibito il lavoratore infortunato si era verificato un intasamento, ovvero una marcia a vuoto degli organi della frantumazione (le “mascelle”), dovuto alla presenza di due massi caduti nella tramoggia di carico.

Il lavoratore ha provveduto quindi a spegnere l’impianto e, dopo essersi calato all’interno del frantoio, ha imbracato con delle cinghie uno dei due massi e quindi con l’utilizzo di una gru ha rimosso il masso riponendolo su un piano del frantoio. Mentre era intento a imbracare il secondo masso, il primo gli è rovinato addosso, procurandogli una frattura scomposta ed esposta alla gamba destra, con successiva inabilità ad attendere alle sue occupazioni per un tempo superiore a quaranta giorni.

La pronuncia di condanna da parte del Tribunale ha identificata una violazione cautelare attribuibile al datore di lavoro quale antecedente causale del sinistro. Lo stesso, infatti aveva omesso di valutare il rischio specifico derivante dall’evenienza “intasamento”, ordinaria nel funzionamento dell’impianto e non aveva inserito nei documenti aziendali di sicurezza previsioni che valessero a far ritenere soddisfatte le prescrizioni di legge.

La Corte di Appello, per contro, ha ritenuto che tale documentazione avesse dato invece delle indicazioni sulle procedure di lavoro da osservare per il caso di intasamento della macchina e che tali procedure fossero rimaste non osservate dal lavoratore, il cui comportamento ha giudicato esorbitante rispetto alle mansioni attribuitegli, che non contemplavano l’intervento sul macchinario.

Avverso la decisione della Corte di Appello il lavoratore parte civile ha ricorso per Cassazione a mezzo del difensore di fiducia adducendo diverse motivazioni. Con un primo motivo si è lamentato per avere la Corte di Appello dedotto erroneamente che l’azienda aveva adottato una procedura di disintasamento e che lo stesso tramite la consegna di alcuni documenti era stato adeguatamente istruito sulle modalità di intervento, non essendo così invece in quanto era stata posta a suo carico la valutazione del rischio corso.

Ha rimarcato, altresì, che la sentenza impugnata aveva a lui attribuito una violazione di norme comportamentali che non sono risultate documentate. Con altro motivo si è lamentato per il fatto che il suo comportamento era stato ritenuto esorbitante nonostante non fossero state precisate quali fossero le mansioni rispetto alle quali era stato formulato il giudizio di esorbitanza.

La stessa Corte del resto, ha aggiunto il ricorrente, aveva dato atto del fatto che era previsto che il lavoratore dovesse intervenire con un’asta metallica per cercare di disintasare l’apparecchiatura restando così dimostrato che le mansioni dell’infortunato non si riducevano all’accensione e allo spegnimento dell’impianto per cui, essendo addetto al controllo dell’impianto, una sua condotta imprudente non poteva essere definita abnorme.

Il ricorso riferito all’esorbitanza del comportamento del lavoratore è stato ritenuto fondato da parte della Corte di Cassazione.

Il caposaldo sul quale si era poggiata la sentenza della Corte di Appello impugnata, ha fatto notare la Corte suprema, é rappresentato dalla qualificazione della condotta del lavoratore, sulla cui fisionomia non v’é discussione, quale condotta esorbitante dalle mansioni affidategli e pertanto causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l’evento, secondo la previsione dell’articolo 41 del codice Penale.

Nel formulare il proprio giudizio la Corte di Appello che pure si è rifatta a principi più volte espressi dal giudice di legittimità, è incorsa, secondo la Sezione IV, in errore laddove ha assunto il concetto di mansioni, in termini tali da farlo coincidere con la singola operazione compiuta dal lavoratore.

Infatti, la Corte distrettuale ha affermato che non rientrava tra le mansioni del lavoratore infortunato rimuovere le pietre bloccatesi nel frantoio e non ha considerato che il medesimo era invece effettivamente addetto all’impianto, essendo adibito alla sua alimentazione, e che, in caso di intasamento dell’apparecchio, la prima manovra prevista era proprio quella di utilizzare delle aste per tentare lo sblocco dell’impianto e solo in caso di insuccesso chiamare il capo cava per decidere se risolvere l’inconveniente aprendo le “mascelle”.

E’ quindi risultato, ha così proseguito la Sezione IV, che al lavoratore era stato affidato anche il compito di provvedere al disintasamento della macchina, sia pure solo in prima battuta, e che la indubbia imprudenza commessa dal lavoratore non si pone in rapporto di eccentricità (per usare l’espressione della Corte territoriale) rispetto allo svolgimento delle mansioni affidategli ma anzi rappresenta una modalità di soluzione di un problema che si opponeva all’espletamento dei compiti; che in ipotesi fosse anche trasgressiva delle disposizioni impartite dall’impresa nulla toglie alla non abnormità di quel comportamento.

Per quanto sopra detto quindi la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata ai fini civili con rinvio, per nuovo esame degli atti, al Giudice civile competente per valore in grado di appello.

La sentenza della Corte di Cassazione Penale n. 36473 del 9 settembre 2015 è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14037:2015-09-10-15-53-55&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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AGENTI CANCEROGENI E MUTAGENI: I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

01 ottobre 2015

 

Indicazioni per l’utilizzo di idonee misure di protezione individuale nell’esposizione lavorativa ad agenti cancerogeni e mutageni. I DPI per le vie respiratorie, per gli arti superiori, per gli arti inferiori e per la protezione di occhi, viso e corpo.

 

In un precedente articolo PuntoSicuro si è soffermato sulle misure organizzative o procedurali e sulle misure di protezione utilizzabili nell’esposizione lavorativa ad agenti cancerogeni e mutageni.

Ne abbiamo parlato con particolare riferimento alle misure di protezione collettive (ad esempio ventilazione generale e aspirazione localizzata) che, sottolinea il D.Lgs. 81/08, hanno la priorità su quelle individuali.

 

Ci soffermiamo oggi invece sulle misure di protezione individuali, sui Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) attraverso il contenuto del documento, realizzato dalla Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione (CONTARP) dell’ INAIL, dal titolo “Agenti cancerogeni e mutageni. Lavorare sicuri”.

Nel documento si ricorda che laddove, malgrado la presenza di misure di prevenzione e/o di protezione collettive, permanga un rischio residuo di esposizione:

  • il datore di lavoro deve fornire ai lavoratori esposti o potenzialmente esposti idonei DPI;
  • i lavoratori sono obbligati a indossare i DPI ricevuti e ad averne cura.

Dopo aver riportato alcune indicazioni sulle caratteristiche generali dei DPI, vengono presentati i principali DPI utilizzati per la protezione da agenti chimici, con alcune indicazioni particolari per gli agenti cancerogeni/mutageni e con riferimento a vie respiratorie, arti superiori, arti inferiori, occhi e viso, corpo.

Ci soffermiamo sui DPI per le vie respiratorie.

 

Respiratori a filtro antipolvere

Proteggono da particelle (polveri, fibre, fumi, nebbie). L’aria inspirata viene filtrata mediante azione meccanica ed elettrostatica. I due principali tipi di dispositivi sono: facciale filtrante (è costituito da un unico elemento di materiale filtrante, indicato dalla sigla FFP; può essere munito di valvola di espirazione; va sostituito alla fine di ciascun turno lavorativo) e maschera (semimaschera o pieno facciale: la semimaschera copre solo naso e bocca, il pieno facciale copre invece tutto il viso) sulla quale si montano in modo intercambiabile i filtri, di colore bianco e indicati dalla sigla P. I filtri possono essere 1 o 2. Oltre a facciali filtranti e maschere, esistono caschi e cappucci con filtri (ad esempio i caschi ventilati per saldatura). Il documento si sofferma ulteriormente sulle classi di efficienza e sulla tipologia di facciali filtranti e filtri.

 

Respiratori a filtro antigas

Proteggono da gas e vapori, trattenuti da filtri a carbone attivo per assorbimento chimico o fisico. I filtri sono distinti in tipi, in base alla sostanza o classi di sostanze che assorbono (Norma EN 14387:2008) e anche i respiratori antigas comprendono facciali filtranti, maschere, caschi o cappucci. Anche in questo caso nel documento si riportano le varie tipologie, colori e protezione dei filtri.

 

Respiratori a filtro combinati

Proteggono contemporaneamente da particelle e gas/vapori. Sono muniti di un filtro antipolvere (P o FFP) e uno o più filtri antigas, da selezionare separatamente. È riportata nel documento una tabella con i tipi di filtri combinati previsti dalla norma EN 14387.

 

Respiratori isolanti.

A differenza dei respiratori a filtro, quelli isolanti sono indipendenti dall’atmosfera ambiente. L’aria fresca, fornita all’utilizzatore da sorgenti alternative (ad esempio bombole di aria compressa), viene convogliata nel facciale (o casco/cappuccio) attraverso un raccordo. Questi respiratori sono necessari se:

l’atmosfera è carente di ossigeno (concentrazione < 17%);

i contaminanti sono presenti in concentrazioni superiori ai limiti di utilizzo dei respiratori a filtro;

i contaminanti gassosi hanno soglia olfattiva maggiore del TLV-TWA;

la natura e/o la concentrazione dei contaminanti non sono note;

si lavora in ambienti confinati.

Veniamo alle indicazioni particolari per agenti cancerogeni e/o mutageni.

Si raccomandano:

  • dispositivi filtranti FFP3 o P3 (eventualmente S o SL) in presenza di particelle;
  • dispositivi filtranti con filtri antigas specifici in presenza di gas/vapori;
  • dispositivi filtranti FFP3/P3 + filtri antigas specifici in presenza di una combinazione di particelle e gas/vapori.

Inoltre in circostanze particolari (ad esempio incidenti o altri eventi non prevedibili, operazioni lavorative che possono comportare un’esposizione rilevante come la manutenzione, ecc.) sono indicati respiratori isolanti.

Veniamo brevemente ai DPI per gli arti superiori.

I guanti costituiscono una barriera tra la cute e gli agenti chimici; la protezione si basa sulla resistenza alla penetrazione (passaggio di una sostanza attraverso le porosità del manufatto), ma soprattutto alla permeazione (attraversamento, a livello molecolare, del materiale costituente).

Possono essere monouso, usa-e-getta o riutilizzabili.

Queste le indicazioni particolari per agenti cancerogeni/mutageni:

  • i guanti devono essere sufficientemente lunghi, tali da coprire almeno l’avambraccio, meglio se monouso o usa-e-getta;
  • per un’ottimale protezione, si raccomanda un doppio paio di guanti.

Il documento si sofferma anche sui DPI per gli arti inferiori (calzature di sicurezza, copriscarpe) e sui DPI per gli occhi e il viso (con riferimento a occhiali di protezione, visiera e schermo), ricordando che, per quanto riguarda occhi e viso e la protezione dagli agenti cancerogeni e mutageni, si raccomandano occhiali a mascherina o visiera per la manipolazione di prodotti nocivi a contatto con gli occhi in generale. E per la saldatura è indicato uno schermo filtrante, oppure un casco ventilato.

Rimandando alla lettura integrale del documento INAIL, concludiamo questo breve percorso informativo con qualche indicazione sui DPI per il corpo.

 

Questi DPI comprendono indumenti per la protezione completa (tute) o parziale (ad esempio camici, grembiuli, ecc.) del corpo.

Anche gli indumenti devono essere resistenti alla penetrazione e alla permeazione. Sono generalmente costituiti da Tessuto-Non-Tessuto (TNT) in materiali polimerici (ad esempio Tyvek) e possono essere riutilizzabili, monouso o usa-e-getta.

E le norme EN individuano sei tipologie di indumenti, marcati con specifici simboli.

In particolare i simboli fanno riferimento a:

  • indumenti a tenuta stagna ai gas;
  • indumenti a tenuta stagna, ma non ai gas;
  • indumenti a tenuta a getti di liquidi;
  • indumenti a tenuta a spruzzi di liquidi;
  • indumenti a tenuta alle polveri;
  • indumenti a tenuta “limitata” a schizzi di liquidi.

Riportiamo, infine, le indicazioni particolari per agenti cancerogeni/mutageni.

Innanzitutto si raccomandano indumenti monouso o usa-e-getta, a protezione completa o parziale.

E in circostanze particolari, vale a dire:

  • incidenti o altri eventi non prevedibili;
  • operazioni lavorative che possono comportare un’esposizione rilevante, come la manutenzione;

sono indicati indumenti di Tipo 1A/1B o 1C, cioè indumenti a tenuta stagna ai gas che siano impermeabili all’aria e ai gas con autorespiratore all’esterno per squadre di emergenza (A) o impermeabili all’aria e ai gas con autorespiratore all’interno per squadre di emergenza (B) o impermeabili all’aria e ai gas con autorespiratore all’esterno per lavoro (C).

La guida INAIL – CONTARP “Agenti cancerogeni e mutageni. Lavorare sicuri” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_181548.pdf

 

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CADUTA DALL’ALTO: I REQUISITI DEI SISTEMI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

02 ottobre 2015

di Tiziano Menduto

 

Un intervento presenta i requisiti dei sistemi di protezione individuale contro le cadute dall’alto con attenzione ai requisiti dei sistemi di trattenuta, dei sistemi di posizionamento sul lavoro e dei sistemi di arresto caduta.

 

Poiché le cadute dall’alto continuano a essere una delle principali cause di infortuni mortali in Italia (rappresentano all’incirca un terzo degli infortuni mortali sui luoghi di lavoro registrati dal Sistema di sorveglianza Infor.MO.) ci soffermiamo oggi sulla prevenzione delle cadute nel comparto costruzioni attraverso un intervento al convegno “Ancoraggi e sistemi di protezione individuale nei lavori di copertura” che si è tenuto a Bologna il 23 ottobre 2014 durante la manifestazione Ambiente Lavoro abbinata al SAIE.

 

Nell’intervento “Requisiti dei sistemi di protezione individuale contro le cadute dall’alto”, a cura dell’ingegner Francesca Maria Fabiani (INAIL – Dipartimento Innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, Prodotti ed insediamenti antropici, Laboratorio cantieri temporanei o mobili), viene data risposta innanzitutto ad alcune domande preliminari.

Cos’è un sistema di protezione individuale contro le cadute dall’alto?

Si indica che è un insieme di componenti assemblati comprendente un dispositivo di presa del corpo e un sistema di collegamento, raccordabile al sistema di ancoraggio.

E a cosa serve un sistema di protezione individuale contro le cadute dall’alto?

Questo sistema è destinato a eliminare o a ridurre il rischio di caduta dall’alto:

  • eliminazione per il lavoratore che lo indossi della possibilità di cadere dall’alto;
  • se ciò non è possibile, eliminazione o riduzione dei danni conseguenti la caduta dall’alto.

Ed è necessario dare priorità ai sistemi che evitano la caduta dall’alto rispetto a quelli che arrestano la caduta.

Dunque tali sistemi di protezione individuale contro le cadute dall’alto (per evitare la caduta dall’alto del lavoratore o, se non è possibile, arrestarne la caduta) hanno il compito di prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori.

E l’efficacia di un sistema di protezione individuale dalle cadute dipende principalmente dalla efficacia del sistema di ancoraggio a cui è collegato, ma anche da altri fattori, specifici per ogni tipologia.

La relatrice si sofferma in particolare sui requisiti e i fattori che influenzano l’efficacia di:

  • sistemi di trattenuta;
  • sistemi di posizionamento sul lavoro;
  • sistemi di arresto caduta.

Diamo qualche informazione sui sistemi di trattenuta.

Sistemi che hanno la funzione di evitare la caduta dall’alto:

  • impediscono al lavoratore di raggiungere le zone dove esiste il pericolo di caduta dall’alto;
  • permettono eventualmente al lavoratore di arrivare in prossimità del bordo non protetto, e comunque di non superarlo.

Questi sistemi non sono invece destinati ad arrestare la caduta dall’alto.

Si indica che nel progetto, nella scelta e nell’utilizzo di questi sistemi, occorre tenere conto di:

  • resistenza del sistema di ancoraggio;
  • resistenza del sistema di trattenuta: cintura di trattenuta, cordino di trattenuta, connettori;
  • geometria: lunghezza del cordino di trattenuta (cordino non troppo corto, né troppo lungo, anche considerando la freccia del sistema di ancoraggio lineare flessibile e l’ergonomia);
  • freccia del sistema di ancoraggio lineare flessibile: si ha perdita di efficacia del sistema di trattenuta per non corretto dimensionamento della lunghezza del cordino in relazione alla freccia del sistema di ancoraggio;
  • ergonomia: confortevole, non deve impedire movimenti.

 

Se un sistema è poco ergonomico:

  • può indurre il lavoratore a effettuare manovre negligenti a discapito della sicurezza;
  • può provocare effetti dannosi sulla salute del lavoratore.

In particolare il cordino di trattenuta deve:

  • permettere di raggiungere la zona dove deve essere eseguita la lavorazione (non troppo corto);
  • essere di lunghezza tale da evitare la caduta dall’alto (non troppo lungo).

Bisogna fare attenzione alla lunghezza massima del cordino regolabile o del dispositivo anticaduta di tipo retrattile. Si ricorda che è ammesso l’uso di un dispositivo anticaduta di tipo retrattile solo quando questo per la sua estensione massima realizzi comunque la condizione di trattenuta.

L’intervento si sofferma poi sui sistemi di posizionamento sul lavoro.

Questi sistemi hanno la funzione di sostenere il lavoratore: permettono al lavoratore di lavorare sostenuto quando il luogo di lavoro (ad esempio traliccio, palo, tetto a forte pendenza) è tale da non permettere al lavoratore di stare in piedi senza l’utilizzo di un sostegno e l’attività lavorativa necessiti dell’utilizzo di entrambe le mani. Anche questi sistemi non sono destinati ad arrestare la caduta dall’alto. L’utilizzatore si affida generalmente all’equipaggiamento per il sostegno. Pertanto è essenziale prendere in particolare considerazione la necessità di fornire un sistema ausiliario di arresto caduta (UNI EN 363:2008).

Veniamo ai fattori che influenzano l’efficacia di questi sistemi.

Nel progetto, nella scelta e nell’utilizzo, occorre tenere conto di:

  • resistenza del sistema di ancoraggio;
  • resistenza del sistema di posizionamento: imbracatura con cintura di posizionamento, cordino di posizionamento, connettori;
  • geometria: lunghezza del cordino di posizionamento (cordino non troppo corto, né troppo lungo, in relazione alla lavorazione da eseguire, anche considerando la freccia del sistema di ancoraggio lineare e l’ergonomia);
  • freccia del sistema di ancoraggio lineare;
  • ergonomia: confortevole, non deve impedire movimenti (imbracatura con cintura di posizionamento regolabile, adattabile al lavoratore).

Veniamo infine ai sistemi di arresto caduta.

Sistemi che:

  • non eliminano la possibilità di cadere dall’alto;
  • devono prevenire lesioni ai lavoratori;
  • devono arrestare la caduta dall’alto.

Dunque questi sistemi:

  • permettono di raggiungere posizioni nelle quali esiste il pericolo di caduta dall’alto;
  • non impediscono la caduta libera;
  • in caso di caduta libera, il sistema l’arresta, contenendone la distanza di arresto entro limiti prefissati, e mantengono in sospensione il lavoratore in attesa di soccorso.

Sui ricorda che per un lavoratore che indossa un sistema di arresto caduta collegato a un sistema di ancoraggio puntuale, la caduta del lavoratore può essere suddivisa in fasi principali:

  • caduta libera: il lavoratore cade liberamente perché il sistema di collegamento non è ancora teso;
  • caduta frenata: il sistema di collegamento, vincolato al sistema di ancoraggio, prende il carico, si tende e frena il lavoratore;
  • quiete dopo la caduta.

In particolare durante la caduta frenata il lavoratore viene sottoposto ad una azione frenante.

L’azione frenante deve essere:

  • contrastata efficacemente dal sistema di ancoraggio e da tutti i componenti del sistema di arresto caduta;
  • limitata perché una forte decelerazione in tempi rapidi produce seri danni al corpo;
  • distribuita su una area estesa del corpo.

In questo senso un adeguato assorbitore limita la forza frenante e l’accelerazione durante l’arresto della caduta, mentre un’adeguata imbracatura distribuisce il carico sul corpo.

Inoltre durante la caduta il lavoratore non deve incontrare ostacoli e deve essere soggetto a un ridotto effetto pendolo.

L’intervento si sofferma infine anche su:

  • tirante d’aria: spazio libero necessario affinché il lavoratore non urti contro ostacoli durante la caduta, misurato a partire dal punto di caduta del lavoratore;
  • effetto pendolo: spostamento laterale che subisce un lavoratore, che indossi un dispositivo di arresto caduta, collegato ad un sistema di ancoraggio, in seguito alla caduta dall’alto.

Si sottolinea che l’oscillazione del corpo dopo la caduta può provocare malesseri del lavoratore e può provocare urti contro ostacoli e dunque può comportare la perdita di efficacia del sistema di arresto caduta.

Dopo aver dato informazioni sull’effetto pendolo con ancoraggio puntuale e con ancoraggio lineare flessibile, la relazione si sofferma, anche in questo caso, sulla progettazione e scelta dei sistemi di arresto caduta e conclude l’intervento sottolineando che i requisiti prestazionali e i fattori che influenzano l’efficacia sono elementi fondamentali di cui tener conto per la scelta e il corretto dimensionamento di un sistema di protezione individuale dalle cadute dall’alto.

Il documento “Requisiti dei sistemi di protezione individuale contro le cadute dall’alto” di INAIL – Dipartimento Innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, Prodotti e insediamenti antropici, Laboratorio cantieri temporanei o mobili è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/150910_INAIL_requisiti_sistemi_protezione_cadute.pdf

 

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