SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.229 DEL 12/10/15

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SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.229 DEL 12/10/15

 

INDICE

  • Il filo rosso dell’amianto e di Stephen Schmidheiny tra Italia e America Latina
  • La responsabilità del capocantiere e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per infortunio del lavoratore
  • I quesiti sul Decreto 81: addestramento all’uso dei DPI
  • L’infortunio in itinere: la normativa di legge e il contributo interpretativo della giurisprudenza
  • Infortuni in itinere: occasione di lavoro o occasione dell’iter spartiacque per l’indennizzo

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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IL FILO ROSSO DELL’AMIANTO E DI STEPHEN SCHMIDHEINY TRA ITALIA E AMERICA LATINA

 

Da: Carmilla

http://www.carmillaonline.com

25 settembre 2015

di Fabrizio Lorusso

 

Lo portavano sempre con sé i pompieri, dentro le loro uniformi. Isola tetti, pareti e tubature. E’ fibroso, incombustibile, mortale. Non è un indovinello, ma la descrizione dell’amianto o di una sua varietà, l’asbesto, un minerale di fibre bianche, flessibili e assassine.

 

“Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria.

Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile: l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate dalla fusione di un elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto”.

Così scrive Alberto Prunetti, autore del romanzo, basato sulla vita di suo padre e della sua famiglia “Amianto. Una storia operaia” (Edizinoi Alegre, Roma).

Ed è la storia di milioni di lavoratori che, spesso ignari del pericolo o manipolati dalle imprese che li contrattano, ancora oggi in decine di paesi nel mondo inalano e portano su di sé o dentro di sé le fibre tossiche che provocano mesotelioma, tumore del polmone e della laringe, o gravi patologie come la asbestosi.

Parole forse complicate ma cause semplici: se in casa stai lavando dei vestiti con dei residui di amianto, potresti respirarne una fibra che mai più uscirà dal tuo corpo e potrebbe produrre malattia e morte. Da un fascetto di minerale spesso un millimetro si possono liberare cinquantamila microfibre respirabili.

 

L’amianto è un minerale silicato, varietà di serpentino o di anfibolo, di composizione varia, e in composizione con il cemento forma il fibrocemento, che è altresì un marchio registrato, brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Hatschek come “Eternit”, cioè eterno, data la sua resistenza. Ed eternamente sprigiona polveri fatali quando è maneggiato o quando si logora. Tutti noi, per esempio in Messico, dove vivo, e comunque ove non sono state proibite la sua estrazione ed il suo uso, o dove non sono state realizzate le bonifiche, siamo in pericolo. In terra azteca l’asbesto è onnipresente, sopra le nostre teste, nelle pareti, a ricoprire tubi o nei negozi in cui ancora si commercializza. E’ rischioso lavorare a contatto con il minerale, vivere nei pressi degli stabilimenti o avere lamine, tubature, pastiglie dei freni, giacche e guanti rivestiti di amianto.

Paiono ammonimenti scontati e banali in Italia o in Europa, ma suonano come inquietanti novità in gran parte dell’America Latina.

 

 

ASBESTO: AMERICA E RUSSIA

 

In Europa la bonifica delle strutture infestate dall’amianto è durata anni, da quando a poco a poco negli anni novanta il materiale cominciò a essere messo al bando e poi, nel 2005, la misura fu estesa definitivamente a tutti gli stati membri della UE. Oltre 50 paesi, includendo, nelle Americhe, il Cile, l’Honduras, l’Uruguay e l’Argentina, hanno fatto la stessa cosa, vietandone l’uso all’interno del proprio territorio.

Ma le economie più importanti del continente americano e ai primi posti nel mondo, come Stati Uniti, Canada e Brasile, pur avendone limitato gli usi e avendolo proibito totalmente in alcuni stati, non l’hanno del tutto proibito e continuano a promuoverne il commercio.

Infatti, il Canada è uno dei primi esportatori dell’amianto bianco o crisotilo, gli Stati Uniti sono molto attivi nell’import-export dell’amianto e il Brasile è il terzo produttore mondiale e lo utilizza ampiamente in casa propria.

Gli affari della fibra-killer vanno a gonfie vele anche per Russia, Cina, Tailandia, India e Kazakistan, che sono tra i principali produttori.

In Russia a Kazakistan le aziende leader sono rispettivamente la Orenburg Minerals e la Kostanai Minerals, controllate dalla britannica United Minerals Group Limited dal 2003, secondo un report stilato dagli investitori di Kostanai Minerals. Nel 2004 la compagnia ha una quota del mercato mondiale dell’asbesto crisolito del 30% e cambia nome: diventa la Eurasia FM Consulting Ltd, ma non è chiaro se tuttora l’impresa controlli Orenburg e Kostanai.

 

Cito da un reportage del 2010 del progetto “Dangers in the Dust” :

Una compagnia con sede a Cipro, la UniCredit Securities International Ltd (parte di UniCredit, uno dei gruppi bancari più grandi del mondo, con 10.000 filiali in 50 paesi) possiede partecipazioni sia in Orenburg Minerals che nella Kostanai Minerals per conto di clienti occulti, secondo quanto detto dal portavoce di UniCredit, Andrea Morawski, a ICIJ (International Consortium of Investigative Journalists) via mail. Morawski ha sottolineato, comunque: “Noi non esercitiamo nessun controllo su Orenburg Minerals or Kostanai Minerals né siamo beneficiari delle partecipazioni detenute. Fin dove siamo ragionevolmente a conoscenza, noi non siamo stati beneficiari di nessuna commissione/profitto derivante da attività legate all’asbesto”.

 

L’asbesto non è vietato negli USA che, al contrario sono sempre stati un gran importatore di amianto e il maggior consumatore mondiale del minerale, mentre hanno fornito storicamente solo una piccola percentuale dell’output estratto globalmente.

 

Riporto dal portale Asbestos.com (sezione “Storia”):

“Una regolamentazione presentata dalla Agenzia per la Protezione Ambientale, che bandiva la maggior parte dei prodotti contenenti asbesto, venne ribaltata dalla Corte d’Appello del Quinto Circuito a New Orleans nel 1991 per le pressioni dell’industria dell’asbesto. Anche se si tratta ancora di un bene legale ed è presente in molti edifici e prodotti d’uso comune nelle case, l’uso dell’asbesto è declinato considerabilmente negli Stati Uniti. L’ultima miniera è stata chiusa nel 2002, mettendo fine a quasi un secolo di produzione di asbesto nel Paese”.

 

Ad ogni modo negli USA, secondo il US Geological Survey relativo al 2012, sono entrate 1.060 tonnellate di asbesto dal Brasile. Fondamentalmente il commercio e gli affari non si sono mai fermati, l’amianto di tipo bianco-crisolito è ancora utilizzato nei materiali da costruzione, per l’isolamento, i freni delle automobili e in altri prodotti, malgrado esistano alternative valide per il settore manifatturiero. Di conseguenza una trentina di statunitensi muoiono ogni giorno per le patologie ad esso relazionate.

 

Da anni il Canada è additato come un “paese canaglia” per la sua reticenza nell’includere l’amianto nella lista internazionale dei materiali pericolosi. Le attività minerarie canadesi cominciarono intorno al 1850, quando furono scoperti i giacimenti di crisolito a Thetford, e un quarto di secolo dopo si estraeva una cinquantina di tonnellate nel Quebec. Negli anni ‘50 del secolo scorso la cifra arrivò a oltre 900.000 tonnellate.

 

Nel 2011, la miniera “Jeffrey Mine in Asbestos” del Quebec è finita al centro dell’attenzione dopo che il governo canadese aveva proposto un finanziamento da 58 milioni di dollari per riaprire la miniera. Siccome gli investitori privati fallirono nel tentativo di raccogliere 25 milioni di dollari per la data del primo luglio 2011, che era la deadline per acquisire la miniera, il finanziamento del governo del Quebec è stato rimandato a tempo indefinito. Questo spostamento è volto a dare più tempo agli investitori per raccogliere fondi. Di nuovo nel 2011 il Canada ha deciso di non supportare la decisione di aggiungere l’asbesto crisolito nella lista delle sostanze pericolose della Convenzione di Rotterdam, un trattato internazionale che promuove unità e responsabilità riguardo all’esportazione e importazione di sostanze e prodotti chimici pericolosi.

 

Il Canada è l’unica nazione del G8 a non aver votato per includere l’asbesto nel trattato, un scelta che il governo ha sostenuto anche nel 2015. Internamente, però, l’uso del minerale è vietato, ma questo non accade, ipocritamente, per la sua produzione e commercializzazione all’estero. Ormai il paese non lo produce più, anche se lo commercia: il valore dei prodotti importati contenenti amianto è passato da 4,9 nel 2013 a 6 milioni di dollari nell’anno successivo, mentre le esportazioni di tali beni sono state di 1,8 milioni di dollari. Nel 2013 la Russia, lo Zimbabwe, il Kazakhstan, l’India, il Kyrgyzstan, il Vietnam e l’Ucraina si sono opposti in blocco all’inclusione, mentre il Canada per la prima volta ha votato per la neutralità.

 

Nonostante la sua posizione oltranzista, il Canada oggi di fatto usa molto meno amianto di prima, ma fino al 2011, anno di chiusura dell’ultima miniera, il Quebec da solo era il primo produttore mondiale ed esportava il 96% del minerale grezzo estratto nei paesi asiatici posizionandosi come superpotenza esportatrice del minerale.

Le prossime elezioni federali canadesi, previste per il 19 ottobre, potrebbero segnare un punto di svolta in caso di vittoria del Liberal Party, da sempre ambiguo sull’amianto ma ora riconvertitosi a una linea “verde”, o del New Democratic Party, oggi all’opposizione e contrario a ogni tipo di asbesto, mentre una vittoria del Conservative Party di Stephen Harper sarebbe un toccasana per le lobby pro-amianto. Il Bloq Québéquois ha mostrato anch’esso non poche ambiguità e tentennamenti, ma pare orientarsi verso l’estensione delle restrizioni, così come il Green Party che da sempre combatte il blocco estrattivista.

 

 

ITALIA, BRASILE, MESSICO

 

Pure l’Italia, in cui il divieto risale al 1992, continua a importarlo aggirando la normativa. “Negli ultimi anni ne abbiamo importato 34 tonnellate e i numeri sono indicati per difetto. I rumors si rincorrevano da mesi, la procura di Torino ha aperto un fascicolo d’indagine, ma la conferma ufficiale è arrivata solo qualche giorno fa alla Camera dei Deputati”, spiega Stefania Divertito su BioEcoGeo.

Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, in un’interpellanza sull’argomento ha ottenuto una risposta chiara ma incompleta dal sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione: “No, noi non importiamo amianto, ma manufatti contenenti amianto”. Cioè facciamo come Stati Uniti e Canada, per esempio, e tra il 2011 e il 2014 ne sono entrate 34 tonnellate in prodotti che non conosciamo, dato che il sottosegretario non ha fornito dettagli al riguardo. Di Maio ha precisato che “secondo un documento dell’ente minerario del Governo indiano, l’Italia nel 2011 e nel 2012 sarebbe risultato il maggiore importatore al mondo di amianto con rispettivamente oltre 1.040 tonnellate e 2.000 tonnellate”.

Il minerale sarebbe ancora usato nell’edilizia e anche da una partecipata di Finmeccanica, la Agusta Westland che fornisce elicotteri alle forze armate ed è guidata da Daniele Romiti.

Insomma lo sporco e mortifero business dell’amianto non molla la presa. E l’Italia è in buona compagnia dato che, per esempio, anche altri paesi, come Australia, Gran Bretagna, Svezia e Giappone, continuano comunque a commerciarlo malgrado il divieto di utilizzarlo internamente.

 

In Brasile si stima che l’amianto abbia ucciso 150.000 persone in 10 anni, cioè 15.000 in media all’anno, cifra che equivale a circa il 15% del totale mondiale. Nel gigante sudamericano operano 16 grandi aziende che “nelle elezioni finanziano trasversalmente tutti i partiti politici”, denuncia Fernanda Giannasi, ex supervisore del Ministério do Trabalho e attivista anti-amianto.

I militanti come lei hanno sia i mass media che l’industria contro, visto che cercano d’informare la popolazione sui rischi e le complicità politico-imprenditoriali del settore in un intorno ostile e poco sensibile alla tematica. Se ne parla ancora poco e il pericolo non viene eliminato, però la sua percezione sì.

 

In Messico il mesotelioma è aumentato dai 23 casi del 1979 ai 220 del 2010, ma c’è una sottostima probabile del 70% che porterebbe la media annua a 500 casi e, secondo altre stime, anche fino a 1.500. La “cifra sommersa” si relaziona ai casi in cui non si diagnostica la malattia o non risulta dai documenti relativi al decesso, anche perché è conveniente non riconoscere le patologie come “lavorative”. L’asbesto è presente in innumerevoli strutture nel cuore delle città. La CTM (Confederazione dei Lavoratori Messicani, sindacato pro-governativo) ha addirittura difeso l’uso del materiale, dato che il settore impiegherebbe 8-10.000 persone e non ci sarebbero prove di decessi per mesotelioma, il che è falso e nasconde il problema.

Insomma, è come tornare indietro di due o tre decenni almeno. L’estrazione mondiale di amianto è stata nel 2013 di 2,1 milioni di tonnellate e dal 1995 s’è mantenuta abbastanza stabile, tra le 2 e le 3 tonnellate, con un totale di oltre 1800 aziende che lo utilizzano.

Anche se in Messico non esiste una vera e propria associazione di vittime dell’amianto o un movimento significativo contro l’uso del minerale, per cui lo Stato è sostanzialmente indifferente all’argomento, l’organizzazione messicana Ayuda Mesotelioma denuncia e lotta da 5 anni, vale a dire da quando le due fondatrici, Sharon Rapoport e sua sorella Liora, hanno visto come loro padre s’ammalava gravemente.

In cinque decenni il Messico ha importato oltre 500.000 tonnellate d’asbesto e solo nella capitale lo utilizzano 42 imprese. Qui si può fare, maneggiarlo è legale, anche se eticamente deplorabile: i proventi per le quantità importate e processate internamente sono raddoppiate tra il 2011 e il 2012 passando da 9 a 18 milioni di dollari.

 

 

AMIANTO MONDO

 

“A eccezione della polvere da sparo, l’amianto è la sostanza più immorale con la quale si sia fatta lavorare la gente; le forze sinistre che ottengono profitti dall’amianto sacrificano gustosamente la salute dei lavoratori in cambio dei benefici delle imprese”, ha dichiarato l’ex eurodeputato olandese Remi Poppe. I sintomi del mesotelioma compaiono tra 15 e 50 anni dopo l’inalazione delle microfibre e non esiste realmente nessun livello “sicuro” di esposizione.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ogni anno muoiono 107.000 persone in seguito a malattie contratte per il contatto con l’amianto. Per lo stesso motivo nel XX secolo le morti premature furono 10 milioni e s’ammalarono 100 milioni di persone. Oggi 125 milioni di lavoratori rimangono esposti direttamente al minerale.

La Commissione Federale per la Protezione dei Rischi Sanitari del Ministero della Salute messicano ha riconosciuto la sua tossicità, ma s’è limitata a suggerire che “le aziende ne controllino l’uso”.

La Legge della Salute di Città del Messico parla di “precauzioni” da prendere sull’amianto, ma non lo vieta.

 

Secondo i dati dell’istituto di statistica nazionale il 21% delle case messicane ha un tetto di lamine metalliche, cartone o asbesto e l’1% ha pareti di cartone, amianto, fusti di piante, bambù o palma. Nel 2014 sono state concesse delle quote del Fondo di Apporto per la Struttura Sociale per strutture ad uso abitativo nel quartiere periferico di Iztapalapa e le regole stabilivano che per essere beneficiari del programma “i pavimenti, i muri e/o i soffitti devono essere di stanze da letto o cucine all’interno della casa in lamina di cartone, metallica, di amianto o di materiale di scarto”. In sostituzione, secondo la Gazzetta Ufficiale della capitale, si prevedeva di costruire pavimenti, tetti e muri di fibrocemento, quindi di Eternit!

 

La OMS, al contrario, ha chiesto: di eliminare l’uso di ogni tipologia di asbesto, compreso quello bianco o crisolito che le lobby del settore pretendono di presentare come “pulito”; apportare informazioni su soluzioni per sostituirlo con prodotti sicuri; sviluppare meccanismi economici e tecnologici al riguardo; evitare l’esposizione durante il suo uso e il suo smaltimento; migliorare la diagnosi precoce, il trattamento e la riabilitazione medica e sociale dei malati dell’asbesto; registrare le persone esposte attualmente o nel passato.

 

 

IL “GURU” STEPHEN SCHMIDHEINY, IL COSTA RICA, L’AMERICA LATINA

 

La filiera tossica dell’amianto passa anche per il Costa Rica, la cosiddetta “Svizzera del Centroamerica”.

La Garita è un piccolo paradiso, un angolo tropicale nel centro del paese vicino alla città di Alajuela. Le strutture della INCAE Business School, la miglior scuola di business latinoamericana, spiccano tra le palme, le fattorie, una placida strada a due corsie e una distesa di prati verdissimi.

INCAE è famosa per il suo approccio basato sullo sviluppo sostenibile e l’etica d’impresa. Possiede un campus in Nicaragua e uno in Costa Rica. E’ un progetto per l’insegnamento e la ricerca in gestione d’impresa che nasce nel 1964 sotto l’egida della Allianza per il Progresso, lanciata in funziona anti-cubana dal presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, dalla HBS (Harvard Business School), dell’agenzia US Aid e dei capi di stato e gli imprenditori di sei paesi centroamericani (Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica e Panama).

 

Negli anni ‘90 la sua storia s’incrocia con quella di un impresario che, soprattutto nelle Americhe, s’è costruito una fama di irriducibile guru dello sviluppo sostenibile, mentre in Europa è ben noto come il “Re dell’Eternit”: Stephen Schmidheiny. Uomo d’affari per vocazione ed eredità familiare (cementera Holcim, Wild-Leitz di strumenti ottici, l’elettrotecnica BBC Brown Boveri e la multinazionale Eternit), è nato a Heerbrugg, Svizzera, nel 1947, e ha ammassato una fortuna con il business dell’amianto. Il suo record personale è macchiato da processi giudiziari controversi e accuse pesantissime.

 

 

AVINA, ASHOKA E LO SPIRITO DEL FILANTROCAPITALISMO

 

La fondazione AVINA, creata dall’impresario nel 1994 e attiva in 21 paesi latinoamericani, collabora da tempo con la scuola e nel 1996 Schmidheiny, che è stato amministratore di Eternit e oggi siede nel consiglio direttivo di INCAE, ha partecipato alla creazione del Centro Latinoamericano per la Competitività e lo Sviluppo sostenibile dell’università, il CLACDS.

 

Ci sono altre organizzazioni senza fini di lucro fondate dal magnate svizzero: per esempio Fundes (1984) e il fidecommesso Viva Trust (2003) su cui si sostiene AVINA. In questo è confluito il valore della vendita della partecipazione dello svizzero in Grupo Nueva, consorzio specializzato nel business forestale e dei derivati del legno che ha spostato la sua sede principale a San José, Costa Rica, nel 1999.

L’imprenditore ha venduto anche le sue azioni del gruppo Eternit alla fine degli anni ‘80. Le fondazioni, a partire dai trasferimenti di capitale dello svizzero, si sono costituite come enti autonomi dai suoi precedenti “asset” e patrimoni d’impresa e promuovono attività istituzionali, come la rete SEKN (Social Enterprise Knowledge Network), di cui fa parte INCAE, filantropiche e anche alleanze su temi socio-ambientali: acqua, città sostenibili, energia, industrie estrattive, innovazione politica, riciclaggio e cambiamento climatico.

 

Esistono forti movimenti d’opposizione che applicano l’etichetta “filantrocapitalismo” quando si parla di AVINA e della sua alleata Ashoka , fondazione filantropica statunitense presente in 70 paesi. “Il capitale cerca di appropriarsi dei movimenti ecologisti ragionevoli per riconvertirli in capitalismi verdi addomesticati o forme di business con l’esaurimento del pianeta”, ha commentato al riguardo l’ingegnere attivista spagnolo Pedro Prieto di ASPO (Asociación para el Estudio del Auge del Petróleo y del Gas ).

Perché? “Gli imprenditori sociali lavorano con quelle popolazioni e la loro attività consiste nell’avvicinarle alle multinazionali mentre salvaguardano gli interessi di queste”, ha detto María Zapata, direttrice di Ashoka in Spagna.

In un’intervista col portale spagnolo Rebelión, il ricercatore Paco Puche racconta che le fondazioni si infiltrano nei movimenti attraverso la “cooptazione di leader” e che “AVINA è vincolata al magnate svizzero Schmidheiny, che deve la sua fortuna al criminale business dell’amianto. Diciamo che tutti quelli che hanno ricevuto denaro e altri benefici da questa fondazione (e dopo averla conosciuta, non le hanno rifiutate) si portano dietro la maledizione della polvere dell’amianto nelle viscere”.

 

 

PROCESSO ETERNIT

 

Nel febbraio 2013 il tribunale di Torino ha condannato Schmidheiny e il suo ex socio nella multinazionale Eternit Group, il barone belga Louis De Cartier, di 92 anni d’età in quel momento, a 16 anni di prigione per disastro doloso e rimozione di misure contro gli infortuni: la sentenza era attesa dai familiari di 3.000 vittime.

 

Il 3 giugno 2013 in appello la condanna è stata aumentata a 18 anni di reclusione, ma il nobile belga era morto pochi giorni prima. Lo svizzero “Re dell’Eternit” è stato condannato per le sue responsabilità come amministratore dell’azienda nel decennio 1976-1986 e assolto da altri capi d’accusa per il periodo 1966-1975. Le cause dell’asbestosi e del mesotelioma erano già state scoperte negli anni ‘60 e, dopo quel decennio, i due magnati si sono avvicendati nella gestione dell’azienda.

Nonostante tutto, il business di Eternit continuò, per cui la condanna parla di “dolo”: gli imputati avrebbero nascosto consapevolmente gli effetti cancerogeni dell’amianto.

 

Il 20 novembre 2014 la Corte di Cassazione, nell’ultimo livello di giudizio, ha annullato la sentenza precedente argomentando che i reati sono stati commessi, ma che è sopraggiunta la prescrizione. E’ stato preso come inizio dei termini per la prescrizione l’anno 1986, quando Eternit ha dichiarato il fallimento, e la decisione è polemica, visto che il disastro ambientale ancora continua a succedere, non s’interrompe con il fallimento dell’azienda.

E’ uno schiaffo a vittime, familiari e alla società intera. La giustizia s’allontana insieme alla possibilità di congrui risarcimenti.

 

Nel maggio 2015 s’è aperto il processo “Eternit Bis”: Schmidheiny non è più accusato di “disastro” ma di omicidio doloso aggravato di 258 persone, ex impiegati di Eternit o abitanti di Casale Monferrato, uno dei comuni in cui operava l’impresa che sono deceduti tra il 1989 e il 2014 per mesotelioma pleurico.

Dal canto suo, il magnate sulla sua pagina web si presenta come “pioniere nell’eliminazione dell’asbesto nell’industria manifatturiera”. I magistrati di Torino considerano come aggravante il fatto che l’imprenditore avrebbe commesso il reato esclusivamente per “fini di lucro” e “in modo insidioso”, cioè avrebbe occultato ai lavoratori e ai cittadini l’informazione sui rischi che correvano, promuovendo una “sistematica e prolungata opera di disinformazione”.

 

A fine luglio gli atti del processo sono stati inviati alla Consulta e il procedimento è stato sospeso in attesa della decisione della Corte circa le eccezioni di costituzionalità sollevate dai legali di Stephen Schmideheiny in base al principio del “Ne bis in ibidem”, secondo cui nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato.

Nel frattempo i Pubblici Ministeri stanno integrando altri 94 casi di morti legate all’amianto da contestare al manager svizzero, nel caso in cui la Corte Costituzionale accolga le richieste degli avvocati difensori.

 

 

L’ECATOMBE CONTINUA

 

Purtroppo l’ecatombe dell’amianto durerà ancora per decenni e la tendenza, già in atto almeno da una ventina d’anni, è quella di un graduale spostamento dei rischi e dell’uso del minerale verso i paesi in via di sviluppo.

 

Dunque la lotta per la sua messa al bando e la riparazione del danno provocato a milioni di vittime, pur con difficoltà e differenti percorsi più o meno avviati oppure solo incipienti, tende anch’essa a globalizzarsi, passando dall’Europa all’America Latina e agli altri continenti.

 

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LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA PER INFORTUNIO DEL LAVORATORE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

05 ottobre 2015

di Gerardo Porreca

 

Il capocantiere, considerata la sua qualifica e la sua presenza quotidiana in cantiere, è tenuto a un’attività di vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere e sulla predisposizione delle misure per la sicurezza dei lavoratori.

 

E’ uno di quei casi quello al quale fa riferimento questa sentenza della Corte di Cassazione nei quali per un infortunio accaduto in un cantiere edile è stata individuata una esclusiva responsabilità del capocantiere (e Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza – RLS) mentre è stato assolto dalle accuse formulategli il rappresentante legale dell’impresa per conto della quale lo stesso operava.

Il capocantiere, ha sostenuto infatti la suprema Corte, considerata la sua specifica qualifica e la sua presenza quotidiana in cantiere, è tenuto a una attività di vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere, sul rispetto delle condizioni di sicurezza e sulla corretta predisposizione delle opere provvisionali finalizzate a tutelare la sicurezza dei lavoratori e viene meno questi ai suoi precisi obblighi impostigli dalla sua qualifica se, come nel caso in esame, non provvede appunto a una attività di verifica della regolarità delle protezioni di sicurezza installate in cantiere.

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale ha assolto il rappresentante legale di un’impresa edile dal reato ascrittogli mentre ha confermata la condanna inflitta dal Tribunale stesso al responsabile del cantiere e RLS dipendente dell’impresa medesima chiamato a rispondere del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche, per aver contribuito a provocare la caduta da un ponte su cavalletti di un lavoratore dipendente a seguito della quale lo stesso è deceduto.

Con riguardo, in particolare, alla posizione di garanzia assunta dal responsabile del cantiere e RLS la Corte di Appello ha rilevato che lo stesso era capocantiere per l’esecuzione del lavori e ha osservato che non vi era alcun dubbio che questi avesse l’obbligo di vigilare sulla corretta predisposizione delle opere provvisionali, nel rispetto delle misure volte a tutelare la sicurezza dei lavoratori, tenuto conto delle mansioni dallo stesso in concreto svolte.

Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato [il capocantiere] ha proposto ricorso per Cassazione a mezzo del proprio difensore adducendo diverse motivazioni. Con un primo motivo il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello, contraddittoriamente, dopo aver affermato che il lavoratore infortunato fosse stato informato e formato rispetto ai rischi inerenti l’attività, ha individuata invece la sua responsabilità per avere omesso di informare il lavoratore stesso dei rischi connessi alla medesima attività. Un’altra contraddittorietà il ricorrente l’ha individuata in riferimento alla contestazione elevata nei suoi confronti per non avere vigilato sulla corretta messa in opera dei presidi di sicurezza ed ha fatto osservare, altresì, che la Corte di Appello ha mandato assolto il coimputato rappresentante legale dell’impresa al quale erano state contestate le medesime violazioni. Il ricorrente ha rilevato inoltre che il ponteggio dal quale era caduto l’infortunato era stato predisposto dallo stesso lavoratore il giorno dell’evento e che lo stesso era stato informato sul contenuto del documento di sicurezza e avrebbe dovuto segnalargli le anomalia riscontrate.

Come altri motivi il ricorrente ha lamentato l’erronea applicazione della legge penale in quanto non era stata avviata alcuna azione nei confronti di terzi soggetti, tra i quali il Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione (CSE), rimasti estranei al processo nonché il mancato riconoscimento dell’intervenuto decorso del termine di prescrizione del reato.

Sulle motivazioni del ricorso la Corte di Cassazione ha fatto dei rilievi così come di seguito indicati.

 

Sulla posizione di garanzia dell’imputato capocantiere per l’esecuzione dei lavori la suprema Corte fa fatto notare che giustamente la Corte territoriale ha tenuto in considerazione che la sua quotidiana presenza in cantiere gli imponeva una attenta vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere e sul rispetto delle condizioni di sicurezza. La Corte territoriale ha riferito, infatti, che lo stesso si recava quotidianamente in cantiere, agendo a stretto contatto con gli operai e che, il giorno in cui il sinistro ebbe verificarsi era presente in cantiere e aveva visionato il ponteggio che il lavoratore aveva predisposto, senza ravvisarvi alcuna anomalia.

 

La stessa Corte distrettuale ha sottolineato che il ponteggio, contrariamente a quanto previsto espressamente dal piano di sicurezza, aveva una larghezza inferiore a 0,9 m, che le tavole non erano fissate tra loro e neppure fissate ai cavalletti di appoggio, che le parti a sbalzo delle tavole erano di lunghezza superiore a 20 cm e che mancava il fermapiede alto almeno 20 cm.

 

Quindi, secondo la Sezione IV della Cassazione, sulla scorta di tali rilievi, del tutto logicamente la Corte di Appello ha concluso che l’imputato era venuto meno ai precisi obblighi impostigli sia dalla qualifica di capo cantiere, sia dalla effettiva presenza in cantiere e dall’intervenuta visione del ponteggio, che era stato montato in modo irregolare dallo stesso lavoratore di poi deceduto.

Per quanto concerne poi il profilo di colpa ascrivibile allo stesso lavoratore, la Corte suprema ha chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente.

Le norme antinfortunistiche, ha precisato ancora la Sezione IV della Cassazione, sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità e può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento.

 

La giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica.

Per quanto riguarda quindi il mancato esercizio dell’azione penale nei riguardi di terzi soggetti che il ricorrente ha ritenuto a loro volta titolari di posizione di garanzia la Cassazione ha richiamato al riguardo il consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui comunque, in caso di pluralità di posizioni di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento.

 

La Sentenza n. 11135 del 16 marzo 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12867:2015-03-28-11-16-40&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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I QUESITI SUL DECRETO 81: ADDESTRAMENTO ALL’USO DEI DPI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

07 ottobre 2015

Gerardo Porreca

 

Riportiamo un quesito sull’addestramento dei lavoratori per l’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale di terza categoria, con risposta a cura di Gerardo Porreca (www.porreca.it).

QUESITO

 

Un lavoratore che deve essere adibito all’utilizzo di una piattaforma di lavoro elevabile che ha frequentato il corso previsto dall’Accordo della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano (più brevemente Conferenza Stato Regioni) del 22/02/12, specifico per tale tipo di attrezzature, deve svolgere anche il corso per l’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale di III categoria di cui all’articolo 77 comma 5 del D.Lgs. 81/08 [i cosiddetti DPI salvavita come, in questo caso le imbragature anticaduta]?

 

RISPOSTA

 

Il quesito, finalizzato a conoscere se chi ha frequentato il corso per l’abilitazione alla conduzione di una piattaforma di lavoro elevabile (nel seguito indicata più brevemente come PLE), così come previsto dall’Accordo Stato Regioni del 22/02/12, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12/03/12 ed entrato in vigore dal 12/03/13, e relativo alla conduzione di particolari attrezzature di lavoro di cui all’articolo 73 comma 5 del D.Lgs. 81/08 deve comunque essere stato addestrato all’uso dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) contro la caduta dall’alto (cintura di sicurezza), richiede un esame delle normative applicabili al caso in esame e alle quali fanno capo gli obblighi corrispondenti.

L’obbligo dell’addestramento dei lavoratori all’uso di un DPI di III categoria, alla quale appartiene la cintura di sicurezza, è stato stabilito con l’articolo 77 del D.Lgs. 81/08, contenente gli obblighi del datore di lavoro per quanto riguarda la scelta, la fornitura, l’utilizzo, la manutenzione, l’informazione e la formazione circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei DPI in generale, il quale, al comma 5 lettera a), ha stabilito in particolare che “in ogni caso l’addestramento è indispensabile per ogni DPI che, ai sensi del D.Lgs. 475/92, appartenga alla terza categoria”.

L’obbligo dell’abilitazione dei lavoratori addetti a operare sulle attrezzature che richiedono per il loro impiego conoscenze e responsabilità particolari in relazione ai rischi specifici, alle quali appartengono le piattaforme di lavoro elevabili di cui al quesito, è stato invece stabilito con l’articolo 71 comma 7 del D.Lgs. 81/08 secondo il quale l’uso di tali attrezzature deve essere riservato da parte del datore di lavoro a lavoratori allo scopo incaricati che abbiano appunto ricevuto una informazione, formazione ed addestramento adeguati, obbligo che è stato ribadito anche nel comma 4 dell’articolo 73 dello stesso Decreto relativo agli adempimenti sulla formazione dei lavoratori delle attrezzature di lavoro in generale. Con lo stesso articolo 73 il legislatore, al comma 5, ha assegnato alla Conferenza Stato Regioni il compito di individuare quelle attrezzature di lavoro da considerarsi particolari per le quali viene richiesta una abilitazione da parte degli operatori oltre che di fissare le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione e di individuare i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione stessa, cosa che la stessa Conferenza Stato Regioni ha fatto emanando il citato Accordo raggiunto nella seduta del 22/02/12.

In tale ultimo Accordo al punto A) dell’Allegato A in corrispondenza della lettera a) sono state riportate e definite appunto le “piattaforme di lavoro mobili elevabili” il cui programma di abilitazione è consultabile nell’Allegato III dello stesso Accordo. Tale programma si sviluppa in tre moduli e più precisamente in un modulo giuridico-normativo della durata di 1 ora, in un modulo tecnico della durata di 3 ore nonché in un modulo pratico della durata di 4 ore per l’abilitazione all’uso delle PLE che operano con l’uso degli stabilizzatori e della durata di 6 ore per l’abilitazione all’uso delle PLE che operano senza l’uso degli stabilizzatori. Dall’esame del programma del modulo tecnico relativo all’utilizzo delle PLE emerge nel punto 2.5 che nel relativo corso di abilitazione devono essere indicati ed illustrati i DPI specifici da utilizzare nell’operare con tali attrezzature e più precisamente “i caschi, le imbracature, il cordino di trattenuta e le relative modalità di utilizzo inclusi i punti di aggancio in piattaforma”, ma nel modulo pratico fra le esercitazioni operative non risultano riportate, si fa osservare, delle esercitazioni relative all’utilizzo delle imbracature di sicurezza a protezione dalla caduta dall’alto il cui uso è comunque obbligatorio nell’utilizzo di tali attrezzature.

Ciò detto, nel premettere che l’addestramento alla conduzione delle PLE e quello all’uso dei DPI sono due cose completamente diverse essendo l’uno finalizzato a saper utilizzare in sicurezza la particolare attrezzatura di lavoro e l’altra invece finalizzato a sapere usare la cintura di sicurezza, si fa presente, in risposta al quesito formulato, che chi ha frequentato il corso di abilitazione all’uso delle PLE non è affatto esonerato dall’addestramento all’uso della cintura di sicurezza anzi al contrario chi vuole frequentare il corso di abilitazione per le PLE dovrà dimostrare quale requisito per l’iscrizione allo stesso di essere già stato addestrato nell’uso di tale DPI di terza categoria. Si è a conoscenza a tal proposito che alcuni centri di formazione, nel caso in cui chi si iscrive non sia già in possesso di un addestramento sull’utilizzo della cintura di sicurezza provvedono a integrare il programma di abilitazione proprio per fornire tale formazione specifica.

Ciò non avviene ad esempio, per fare un confronto, per coloro che hanno frequentato invece il corso per il montaggio e smontaggio di ponteggi o per l’uso dei sistemi di accesso e posizionamento mediante funi di cui all’Accordo Stato–Regioni del 26/01/06, recepito dal legislatore e riportato nell’Allegato XXI del D. Lgs. 81/08, in quanto nel programma dei corsi destinati a tali operatori è prevista una formazione specifica sulle modalità di utilizzo delle cinture di sicurezza il cui uso è obbligatorio anche per coloro che sono addetti a tali operazioni.

 

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L’INFORTUNIO IN ITINERE: LA NORMATIVA DI LEGGE E IL CONTRIBUTO INTERPRETATIVO DELLA GIURISPRUDENZA

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

6 ottobre 2015

 

La salute e la sicurezza del lavoratore assumono, nel nostro ordinamento, una rilevanza fondamentale, tanto che un apposito istituto, l’INAIL, ha la funzione primaria di indennizzare il lavoratore dai danni che possono derivargli dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

Tra le tutele apprestate dal predetto istituto, di particolare interesse sono quelle poste nei confronti degli infortuni che possono verificarsi sul luogo di lavoro.

 

L’importanza di garantire il lavoratore rispetto agli infortuni è tale che il nostro ordinamento considera come verificatosi durante il lavoro anche il cosiddetto infortunio in itinere, ovverosia quello che avviene durante il tragitto compiuto per raggiungere, dalla propria abitazione, il luogo di lavoro o quello compiuto per recarsi da un luogo di lavoro a un altro o, infine, quello necessario per la consumazione dei pasti in assenza di mensa aziendale.

 

IL D.LGS. N. 38/2000

 

Più nel dettaglio, l’inserimento dell’infortunio in itinere tra le tutele assicurative apprestate dall’INAIL è avvenuto con la riforma apportata nel nostro ordinamento dal Decreto Legislativo numero 38 del 2000.

Con tale intervento legislativo, in sostanza, si è previsto che l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro comprende anche l’infortunio in itinere, così come sopra individuato, salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, chiarendo che l’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, a esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti.

 

Si è inoltre specificato che l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, solo nel caso in cui esso sia necessitato, purché il conducente sia provvisto di abilitazione alla guida e a esclusione del caso in cui gli infortuni siano cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni.

 

LA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE E LA VIOLAZIONE DELLE NORME DEL CODICE DELLA STRADA

 

Nell’esatta ricostruzione della fattispecie dell’infortunio in itinere, con particolare riferimento ai casi in cui esso è concretamente configurabile, un ruolo particolare è stato svolto dalla giurisprudenza.

 

Ad esempio, con la recente Sentenza n. 3292 del 18 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha chiarito che il rischio elettivo, idoneo a escludere l’indennizzabilità dell’infortunio, va valutato con particolare rigore rispetto a quanto effettuato con riferimento all’infortunio che si verifica durante la normale attività lavorativa, con la conseguenza di doversi considerare come idonea a escludere la tutela assicurativa anche la violazione di norme fondamentali del codice della strada.

L’UTILIZZO DEL MEZZO PRIVATO

 

Di certo, però, l’aspetto rispetto al quale la giurisprudenza ha rivestito il ruolo maggiormente importante, a causa dell’indeterminatezza della normativa di legge, è quello relativo all’indennizzabilità dell’infortunio in caso di utilizzo del mezzo proprio.

 

Interessante, ad esempio, è la Sentenza n. 869 del 2015 del TAR della Sardegna, secondo la quale l’infortunio in itinere subito dal lavoratore che utilizza il mezzo proprio può essere indennizzato solo al ricorrere di tre condizioni.

Innanzitutto, il percorso seguito e l’evento debbono essere in rapporto causale, ovverosia il percorso deve costituire per l’infortunato quello “normale per recarsi al lavoro” e per tornare alla propria abitazione.

In secondo luogo tra l’itinerario seguito e l’attività lavorativa deve sussistere un nesso almeno occasionale e il primo non deve essere percorso dal lavoratore solo per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda.

Infine, la necessità dell’uso del veicolo privato deve essere accertata tenendo in considerazione la compatibilità degli orari dei servizi pubblici rispetto all’orario di lavoro dell’assicurato o la sicura non fruibilità di questi in relazione all’impossibilità di determinare la durata esatta della prestazione lavorativa.

 

In materia, di particolare rilievo è poi la Sentenza della Cassazione numero 22154 del 2014, con la quale si è chiarito che l’utilizzo del mezzo proprio deve essere valutato con particolare rigore, considerando che lo strumento normale per la mobilita delle persone è costituito dal mezzo di trasporto pubblico, che è quest’ultimo a comportare il minor grado di esposizione al rischio di incidenti e che, in particolare, l’indennità per infortunio in itinere non spetta al lavoratore che abbia utilizzato il proprio mezzo di trasporto per raggiungere il posto di lavoro distante poco meno di un chilometro dalla propria abitazione, in quanto tale condizione non giustifica la traslazione del costo di eventuali incidenti stradali sull’intervento solidaristico.

 

IL FATTO DEL TERZO

 

Dall’opera della giurisprudenza emerge, quindi, chiaramente che il limite alla copertura assicurativa è costituito principalmente dal rischio che deriva da una scelta arbitraria del lavoratore, ovverosia il cosiddetto “rischio elettivo” (Sentenza della Corte di Cassazione n. 21249 del 2012).

 

Tuttavia, con una recentissima Sentenza i giudici hanno chiarito che la tutela va esclusa anche quando il collegamento tra l’evento ed il “normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro” risulti assolutamente marginale e basato esclusivamente su una mera coincidenza cronologica e topografica, in quanto in tal caso viene meno il fondamentale requisito dell’occasione di lavoro (Sentenza della Corte di Cassazione n. 17685/2015).

 

di Valeria Zeppilli

valeria.zeppilli@gmail.com

 

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INFORTUNI IN ITINERE: OCCASIONE DI LAVORO O OCCASIONE DELL’ITER SPARTIACQUE PER L’INDENNIZZO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

6 ottobre 2015

 

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno inteso metter “fine” al dibattito, in sede scientifica e nella giurisprudenza, sull’infortunio in itinere e l’occasione di lavoro. Lo hanno fatto, per un caso di specie particolare (omicidio di una donna da parte del convivente lungo la strada dal lavoro a casa) con la Sentenza n. 17685 del 2015 ripresa su questo quotidiano da Valeria Zeppilli che, in un successivo intervento sullo stesso sito ha riepilogato con una efficace sintesi i vari aspetti della questione [vedi articolo di Valeria Zeppilli in questa newsletter].

La decisione, peraltro, seppur condivisibile nella sostanza per il caso di specie, desta qualche perplessità per il percorso della motivazione che potrebbe lasciare aperta la possibilità di ripensamenti.

 

La motivazione non convince proprio nel valore attribuito alla ricostruzione dell’articolo 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 1124 del 1965 rivisitato dal Decreto 38/00: “L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni” a cui segue “Salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno. […] L’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, a esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti […]”.

Al testo così ricostruito la Sentenza attribuisce, enfatizzandola, la funzione di vincolare la qualificazione dell’evento alla sussistenza del requisito della “occasione di lavoro” invece che quella e quella sola (su cui torneremo) di rendere applicabile all’infortunio in itinere l’intera disciplina del Testo unico.

 

Pur con la massima considerazione per le ragioni di fondo di tale scelta, condivisa da gran parte della giurisprudenza, come richiamato dalla Zeppilli, e autorevolmente in sede scientifica continuiamo a ritenere che:

con il nuovo testo dell’articolo 2 si sia inteso affermare l’indennizzabilità di un evento per l’essere accaduto lungo l’iter casa/lavoro;

l’accurata definizione legislativa superi la necessità di ogni valutazione ulteriore sulla “occasionalità” da lavoro tipica dell’incidente in fabbrica. Evento che, come si è detto, con l’inquadramento nell’articolo 2, è equiparato a tutti gli effetti all’infortunio sul lavoro “ordinario”.

Certo, di fronte a un caso di specie può essere agevole sostenere come esso non c’entri proprio nulla con il lavoro. Soprattutto quando si tratti di questioni che riguardino le donne con vaghi sfondi sessuali come nel caso di specie e in altri ancora, quale il famoso caso riguardante l’infortunio accaduto a lavoratrice in missione che, durante un amplesso nella camera d’albergo, rimane ferita dalla caduta di un lume.

 

Il discorso si complica, però, quando si debba passare alla fattispecie astratta, ponendo assieme tutta la casistica, e chiarendo, così, in qual modo un ordinario investimento su strada possa essere ricondotto in modo occasionante con il lavoro.

O meglio, la riconduzione è semplice qualora si riconosca che nell’immaginario collettivo parlando di infortuni in itinere ci si riferisca essenzialmente ai rischi tipici della strada provocati da autoveicoli, bici, carri, insidie della stessa strada e manufatti contigui ecc. piuttosto che a situazioni come quella in questione provocata da fatto doloso altrui (doloso in quanto estraneo anche all’ordinaria causalità pedonale?).

 

Da ciò l’adesione alla tesi della rilevanza del collegamento con l’occasione di lavoro e il rifiuto della opposta tesi certo incomprensibile (di là dal chiaro dato letterale) qualora si dimentichi che alle origini della tutela resta l’idea di una responsabilità/copertura assicurativa a carico dell’azienda per tutti gli incidenti che capitino al lavoratore finché egli resti nella sfera di responsabilità del datore di lavoro; responsabilità che il Decreto 38/00 estende, per quanto qui interessa, al percorso da/per il luogo di lavoro (analogamente a quanto si ritiene per l’infortunio occorso in missione come chiarito di recente dall’INAIL in circolare[4]).

 

Fuori da questa logica si colloca la soluzione condivisa dalle Sezioni Unite della Cassazione che adottano, per il caso di specie, una lettura restrittiva dei principi dell’assicurazione sociale, con un percorso analogo a quello che, in altra sede, ha portato al mancato indennizzo di infortunio avvenuto scivolando su una matita sul pavimento dell’ufficio: rischio “comune” a tutti i cittadini (!!!) in una visione che da un lato supera principi base dell’origine assicurativa, dall’altro fa propri enunciati classici del mondo assicurativo privato.

 

La stessa Sentenza 17685 ribadisce espressamente questa scelta di campo per la necessità di uno stretto collegamento con il lavoro (magari proprio quelle mansioni svolte e non altre, aggiungiamo noi): il comma aggiunto non può che essere letto nel quadro del sistema delineato dall’articolo 2 che al primo comma detta la norma fondamentale della materia secondo la quale l’assicurazione “copre tutti i casi di infortuni avvenuti per causa violenta e in occasione di lavoro”.

 

Solo per inciso, non sfugge come l’affermazione sia simmetricamente ribaltabile poiché proprio l’assenza nell’infortunio in itinere dei connotati tipici dell’occasione di lavoro ha reso necessaria la specifica norma. L’affermazione rischia di essere fragile, insomma, tanto che la stessa Sentenza sembra avvertirne l’opinabilità quando aggiunge che “l’infortunio deve comunque essere legato al lavoro sia pure con filo tenue poiché l’iter è per definizione esterno e estraneo alla dimensione lavorativa in senso stretto”.

 

Tutto ciò, prosegue la Sentenza, secondo una ricostruzione dello stesso sistema precedente al Decreto 38/00 ove “non era possibile ignorare il preciso elemento normativo dell’occasione di lavoro: un principio che ha consentito di escludere la tutela in caso di omicidio in alcun modo connesso con il lavoro per essere inquadrabile, invece, nella sfera personale del lavoratore in alcun modo collegabile alla prestazione di lavoro”.

 

Ma, sempre per inciso e a contrario, proprio il richiamo del sistema ante Decreto 38 potrebbe confermare che a fronte della difficoltà di collegare l’infortunio al lavoro con detto “filo tenue” il legislatore abbia tagliato di netto il filo stesso (novello Alessandro Magno!) concentrando l’attenzione sulle condizioni (di luogo, di tempo, di mezzo ecc.) dell’iter seguito.

E’ quest’ultimo, insomma, il protagonista della vicenda tanto che per condividere (torno al punto di partenza) la conclusione negativa della sentenza verrebbe da concludere che l’elemento qualificante non è l’occasione di lavoro ma “l’occasione di iter” prendendo atto della circostanza che nel caso in questione il fatto di seguire quel certo percorso non c’entra nulla nel determinismo dell’evento lesivo.

 

In questo modo, infatti, si può ribaltare il ragionamento (pur giungendo a identica conclusione) nel senso di tener fermo il riferimento esclusivo ad “andare o venire dal lavoro” salvo verificare se e in che misura le circostanze dell’evento interrompano il nesso che deve sussistere con le condizioni del percorso. Un po’ ciò che accade nel rapporto fra l’infortunio e il rischio elettivo, nel senso che il decesso dell’interessata, nel caso di specie, non è collegabile al “rischio strada”, ma al rischio di un evento autonomamente creato dal comportamento di un altro soggetto (una sorta di elettività incolpevole!).

 

Secondo le regole dell’infortunistica, così, resterebbe solo di verificare se e in quale misura le condizioni di tempo e luogo dell’iter abbiano sia pure solo in parte agevolato la decisione e l’esecuzione del fatto criminoso creando un legame sia pur tenue, sufficiente per l’indennizzabilità.

Quest’ultima precisazione (essenziale in un’epoca in cui i mass media trasformano subito specifiche decisioni in “legge”) consente di sottolineare la differenza con altra ipotesi, richiamata a sostegno dalla Cassazione di violenza subita da lavoratrice lungo il suo “iter”, anche per la quale si è negato l’indennizzo con motivazione errata, a nostro avviso, di per sé e anche alla luce della Sentenza 17685. L’ulteriore collegamento, infatti, era in detta fattispecie rinvenibile proprio nella circostanza che la lavoratrice era costretta a fare quel percorso in quelle ore pericolose proprio dalle particolari modalità della prestazione di lavoro, aumentando così le possibilità di farla franca per l’assalitore.

 

Con questi distinguo e verifiche sul campo, quindi, riteniamo che per lo specifico caso possa condividersi la valutazione di non indennizzabilità con un diverso ragionamento secondo il quale un evento in sé non indennizzabile può diventarlo qualora l’iter per come condizionato dal lavoro abbia concorso a rendere possibile o agevolare l’atto criminoso.

 

Ci si muoverebbe, cioè, su terreno simile a quello del “rischio elettivo” sia pur diversamente letto, piuttosto che su quello del collegamento necessitato dell’evento con il lavoro che, se assunto a criterio generale rischia di diventare un pericoloso precedente per fattispecie “di frontiera” in base a letture sempre più superficiali delle sentenze della Suprema Corte. Piano piano, cioè, c’è il rischio che di assimilazione in assimilazione si giunga a restringere il campo della indennizzabilità alle sole ipotesi di incidenti ricollegabili alla “mansione” del lavoratore e a escluderla, comunque, qualora l’incidente concretizzi un normale accadimento della vita quotidiana o provocata da un concorso di colpa del lavoratore stesso.

 

Ed è altrettanto evidente, per concludere, come, quale che sia la soluzione del caso di specie, proprio queste vicende “borderline” confermino la inadeguatezza ormai di un sistema che si regge formalmente su un testo di cinquanta anni fa (anzi di cento tenuto conto del modo in cui fu all’epoca costruito) che proprio per questo si presta più di altri a letture “pretorie” della giurisprudenza libera negli anni di oscillare da un capo all’altro della lettura possibile, rendendo sempre più rischioso il chiedere giustizia da parte dei lavoratori penalizzati oltretutto dalla faticosità e onerosità dei percorsi giudiziari delle recenti riforme.

 

Da ciò la nostra continua (sempre inascoltata) sollecitazione per una riforma complessiva dell’assicurazione infortuni sul lavoro pubblica che riconduca a coerenza anche formale un corpo normativo orami disgregatosi per interventi legislativi, giurisprudenziali, amministrativi, scientifici che rendono nebuloso il quadro stesso riducendo così anche per questa via il livello di tutele sostanziali dei lavoratori.

 

Un nuovo Testo Unico, quindi, che non ripeta però l’errore di quello del 1965 attenutosi rigorosamente al mandato di mettere insieme tutta la normativa precedente senza il filtro, secondo noi indispensabile già all’epoca, di una riconsiderazione dei principi fondanti della tutela.

 

Pasquale Acconcia

 

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