Amianto: due sentenze della Cassazione nel solco del riconoscimento dei danni da esposizione

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La Cassazione Penale ha definito recentemente due sentenze che, analogamente a quanto fatto per le esposizioni all’amianto e relative patologie presso la Centrale Termoelettrica ex Enel di Turbigo in cui MD è parte civile https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=6270 , ha negato validità giuridica alla tesi della trigger dose invece accolta in diversi casi dal Tribunale di Milano (Turbigo, Breda, Pirelli, Alfa).

Il tema è stato oggetto del supplemento alla nostra rivista https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=6096

Nella prima sentenza (del 18.05.2018) Cassazione Gorizia 18 maggio 2018relativa ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose nei confronti dei lavoratori della Italcantieri e appaltatrici nei cantieri di Monfalcone si afferma, tra l’altro:

Orbene, va intanto chiarito, anche alla luce delle informazioni rinvenibili nelle sentenze di merito, che la teoria della trigger dose e quella, antagonista, della dose-correlata attengono al tema della quantità di fibre di asbesto necessaria a produrre l’insorgenza della patologia [la prima attribuendo l’insorgenza della malattia ad una dose killer, risultando irrilevanti sul piano eziologico le ulteriori fibre eventualmente inalate); la seconda ravvisando una relazione di proporzionalità tra dose cumulativa (durata-intensità dell’esposizione) e occorrenza del mesotelioma].
Altra cosa è la teoria dell’effetto acceleratore, la quale presuppone sì quella della dose-correlata, ma non concerne il tema della quantità, bensì quello dei meccanismi di azione delle fibre inalate, proseguendo l’esposizione all’agente patogeno (assumendosi, in base ad essa, che ogni fibra inalata determina l’accelerazione del processo verso il momento della irreversibilità della malattia e, di conseguenza, l’abbreviazione della vita).

Pur “alleggerendo” la posizione di alcuni imputati (per alcuni reati e/o per prescrizione) la sentenza della Cassazione ha confermato quelle di primo e secondo grado basate sulle seguenti considerazioni :

Ha, in primo luogo, ritenuto che tutte le fibre d’amianto, di qualsiasi dimensione, possono cagionare patologie, le più rilevanti essendo l’asbestosi, i tumori polmonari e il mesotelioma (sotto tale specifico profilo, quel giudice ha chiarito quanto segue: l’asbestosi è una patologia mono causale, “firmata” dall’amianto e dose-correlata, per la quale non vi sono problemi di accertamento del nesso causale; il tumore polmonare è una patologia multifattoriale, dose-dipendente, per il cui insorgere è necessaria una consistente esposizione; anche il mesotelioma è malattia asbesto-correlata, “firmata” cioè dall’amianto e dose-dipendente, per cui tutte le esposizioni hanno effetto concausale allo sviluppo della malattia, pur potendo derivare anche da contatto con le fibre in ambiente extra lavorativo, essendo stato tuttavia accertato che, nella quasi totalità dei casi, l’esposizione professionale è alla base dell’epidemia dei mesoteliomi registrati nei paesi industrializzati, quella dei cantieri di Monfalcone essendo all’origine di uno dei più alti tassi studiati dagli epidemiologi) e che deve considerarsi definitivamente accantonata la teoria della c.d. trigger dose o dose singola responsabile che si collocherebbe in un momento preciso del primo stadio di esposizione [punto sul quale nella stessa sentenza di primo grado si era già sottolineata la mancanza di studi o documenti del mondo scientifico o di organismi internazionali di rilievo che si siano occupati della materia che possano accreditare la validità di tale teoria che è quindi rimasta a livello di mera congettura (cfr. pagg. 470-471)].
Ha precisato che la teoria della dose-dipendenza è legata alle caratteristiche del processo multistadio della
cancerogenesi, favorito dalle successive esposizioni e dalla successione delle dosi assunte [distinguendosi una
prima fase, detta di induzione, a sua volta distinta nella fase di iniziazione (in cui l’agente cancerogeno aggredisce il DNA delle cellule) e della promozione (in cui le cellule iniziate cominciano a proliferare), durante la quale vi sono le risposte immunitarie dell’organismo e terminata la quale si ha la fase della progressione o della latenza reale o clinica, in cui il processo neoplastico diventa irreversibile, resiste alle difese immunitarie ed è indifferente a ulteriori esposizioni e al termine della quale si ha l’evidenza clinica della malattia e il tumore può essere diagnosticato (con un tempo medio tra la diagnosi e la morte di un anno)].
La fase della latenza clinica ha durata media di dieci anni, ma è impossibile stabilire con precisione scientifica il momento a partire dal quale il processo neoplastico assume carattere irreversibile (c.d. failure time). La sommatoria della fase dell’induzione e della latenza clinica può definirsi latenza convenzionale e può durare decine di anni (con limiti fino a 60 e medi tra 30 e 40, come emerso nella Conferenza di Helsinki).
La fase della latenza clinica è penalmente irrilevante, poiché qualunque condotta tenuta durante la stessa non
interferisce con il processo causale, già irreversibile (la Corte precisa che le condotte sono state poste in essere tra il 1960 e il 1985, periodo che include l’arco di esposizione di tutte le persone offese) e qualunque esposizione precedente la fase della latenza clinica è penalmente rilevante, siccome concausa della malattia professionale asbesto correlata, il che varrebbe a spiegare la definizione dell’amianto come cancerogeno completo, poiché svolge un’azione iniziante e promovente nel processo di cancerogenesi.
Per superare l’incertezza circa il momento dell’innesco irreversibile (id est: inizio della latenza clinica), la Corte triestina ha rinviato alla teoria multistadio, secondo cui ogni dose assunta durante la fase di induzione avrebbe rilievo nel processo neoplastico. Tale teoria è stata formulata sulla scorta di studi epidemiologici svolti su coorti di lavoratori esposti all’amianto che avrebbero dimostrato che la fase dell’induzione è favorita dalla bio persistenza delle fibre e dal loro progressivo accumulo nell’organismo dovuto alla permanente esposizione (cosicché, se si riduce il periodo di esposizione, si riduce anche il rischio di contrarre la malattia, atteso che le difese immunologiche dell’organismo possono impedire l’innesco del processo neoplastico irreversibile), dal che ha tratto, come logica conseguenza, l’affermazione che il rischio mesotelioma è proporzionale alla dose-cumulativa.
La dose cumulativa si compone di due coefficienti, vale a dire l’intensità e la durata della esposizione. La comunità scientifica (il riferimento in sentenza è alla Terza Consensus), pur ritenendo impossibile stabilire quale dei due sia preminente, ha ribadito che la durata è un fattore determinante dell’insorgenza, cosicché il persistere della esposizione, anche dopo i primi tempi e per l’intera fase della induzione, incide sulla valutazione del nesso causale, nel senso che la condotta del datore di lavoro che mantenga il lavoratore esposto per l’intero arco della sua attività lavorativa è penalmente rilevante, in quanto tutte le dosi aggiuntive di fibre sono scientificamente reputate come dotate di efficacia condizionante lo sviluppo del tumore nei termini sopra precisati.

La seconda sentenza AMIANTO sentenza (1) riguarda il caso di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico per l’esposizione continuativa a fibro cemento contenente amianto in una azienda di produzione di mobili.
In questo caso, a fronte del ricorso dell’imputato, la sentenza riprende il tema della “ignoranza” del Magistrato di fronte alla scienza e, contestualmente, all’obbligo del giudicante di valutare se le ipotesi formulate dai tecnici siano autorevoli e trovano “comune accettazione nella comunità scientifica”. Il giudice non conferisce fondatezza a una o all’altra teoria ma valuta l’attendibilità delle stesse quanto contrapposte e portano a conclusioni differenti in termini di causalità tra esposizione e patologia. In sede di Cassazione il giudice deve valutare la “razionalità” delle scelte dei gradi precedenti di giudizio anche per quanto riguarda la valutazione delle tesi che hanno determinato l’esito processuale nel caso specifico.

Un ulteriore elemento da ricordare, presente in entrambe le sentenze, è il richiamo alla normativa vigente al momento dei fatti (i “vecchi” DPR 303/56 e 547/55) che obbligavano, allora come oggi con il dlgs 81/2008, a garantire ai lavoratori un ambiente di lavoro salubre senza esposizione a polveri e ad agenti nocivi o con il livello tecnicamente ottenibile più basso.

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