NOTIZIE RECENTI E CONSIDERAZIONI INTORNO ALLA VICENDA LAMINA E AL CONTRASTO DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO

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In questi giorni sta facendo “scalpore” la notizia che la Procura della Repubblica di Milano possa accettare la proposta di patteggiamento per una condanna mite (un anno e 10 mesi) presentata dal titolare della Lamina di Milano. In questa azienda il 16.01.2018 morirono quattro lavoratori : Giuseppe Setzu, Giancarlo Barbieri, Arrigo Barbieri, Marco Santamaria (quest’ultimo elettricista esterno).
Ma andiamo con ordine. L’infortunio mortale occorso ai quattro lavoratori si è verificato durante un intervento in un ambiente confinato posto sotto gli impianti metallurgici ove si era determinata una atmosfera povera di ossigeno (per rilascio di un gas tecnico, l’argon, utilizzato nelle lavorazioni).
I lavoratori entrarono uno dopo l’altro nel locale nel tentativo di salvare il primo lavoratore svenuto per asfissia in una catena di solidarietà e morte.
Dagli accertamenti è emersa l’assenza di procedure di sicurezza per tali interventi (e per quelli di emergenza, alcuni lavoratori sono morti per cercare di salvare gli altri non sapendo come intervenire correttamente e non disponendo di attrezzature adeguate) e per il guasto (o voluta esclusione) dell’allarme acustico del sistema di rilevamento di ossigeno.
La parte di impianto è ancora sotto sequestro e sono in corso i lavori di adeguamento come da prescrizioni della ASL/ATS.

A seguito di quell’evento con un tale numero di morti nello stesso momento si è ridestata l’attenzione all’insicurezza sul lavoro (in particolare nelle attività in luoghi confinati e/o con ridotta presenza di ossigeno): le “parti sociali” si sono mosse (o hanno voluto mostrare di muoversi).
Dapprima è stato sottoscritto presso la Prefettura un “Protocollo di intesa per potenziare la sicurezza sul lavoro in ambiti particolarmente a rischio” (20.04.2018).
Protocollo firmato – Prefettura

Inail, enti locali, ATS, sindacati , associazioni imprenditoriali, università hanno sottoscritto impegni per “un modello efficace di contrasto al fenomeno degli infortuni sul lavoro nelle imprese che eseguono lavori ritenuti a maggiore esposizione di incidenti sul lavoro” (da notare il passaggio dal termine “infortuni” al più modesto e generico “incidente”). Tra gli impegni: a) l’individuazione di settori a maggiore rischio (gestione rifiuti, trattamento superficiali metalli, logistica/trasporti) quali settori di intervento specifici e aggiuntivi rispetto alle iniziative in corso (svolte dalle ASL/ATS); b) “azioni mirate di sensibilizzazione e informazione” : i lavoratori e le imprese non sono adeguatamente informate quindi si prevedono “cicli di incontri promossi ad hoc con la presenza di relatori qualificati” (per le aziende e le figure della prevenzione) ovvero null’altro che attuare un obbligo normativo articolato da 25 anni fa con il dlgs 626/1994 …. una ammissione di fallimento.
c) Ci si inventa un nuovo organismo “il Centro per la Cultura della prevenzione nei luoghi di lavoro e di vita” che curerà tali aspetti formativi/sensibilizzanti . Anche qui, indirettamente, una ammissione di fallimento, visto che tali compiti sono posti in capo alle ASL/AST e comunque ad enti pubblici, ma le diverse “riforme” regionali hanno talmente indebolito le funzioni di vigilanza come quelle di informazione e rapporto con le realtà territoriali – in una parola le funzioni di prevenzione – che il protocollo non ritiene che queste ultime siano ancora in grado di svolgere questo ruolo. e) Vi è qualcosa che comunque riguarda anche queste ultime : si prevede un incremento delle attività ispettive e di controllo da parte delle ASL/ATS (quelle di cui ci si lamenta come insufficienti quando succede qualcosa ma, quando si bussa alla porta di un’azienda, si trovano di fronte un datore di lavoro stizzito che chiede “perché venite a controllare proprio me e non quell’altro” ?). Comunque “in relazione alle risorse umane e strumentali disponibili” (sempre meno in particolare dal blocco delle assunzioni vigente dal 2007) si prevede un incremento dei controlli “garantendo un uso appropriato e bilanciato della deterrenza e dell’assistenza” (non sia mai che aumentano le sanzioni e/o i procedimenti penali per le violazioni !).
Da questo protocollo, siamo sempre in Lombardia, è emersa la DGR 29.05.2018 nella quale si imposta un piano triennale straordinario di intervento da parte delle ASL/ATS sui settori giudicati a maggior rischio.
piano triennale straordinario interventi

Nel programma risalta l’assunzione complessiva di 45 tecnici della prevenzione (inizialmente il Governatore Fontana aveva parlato di 100 assunzioni), le assunzioni sono a tempo determinato, per 3 anni : prima si assumono persone inesperte poi quando cominciano a capirci qualcosa il contratto è scaduto e vengono abbandonate) con un costo previsto di circa 6 milioni e 242 mila euro, l’assunzione (in quale modo? per conoscenza ?) di un non meglio specificato numero di “esperti” esterni (quindi senza potere di accesso nelle aziende) per 1 milione di euro; infine, bontà loro, 1 milione di euro di “attrezzature” (certamente positivo se ben spese, visto che non è inusuale che, per sostituire dei pneumatici usurati di una auto di servizio, necessiti di sei mesi di tempo e di ripetute insistenze).
Da dove provengono i soldi ?
Dagli introiti di un solo anno di sanzioni erogate dai tecnici delle ATS della Lombardia (8.242.000 euro circa) ovvero da importi che – per legge – devono sempre essere utilizzati per potenziare l’attività preventiva e ispettiva degli organi di vigilanza ma che, finora, andavano quasi esclusivamente a mettere qualche pezza ai bilanci delle ASL/ATS e/o a quello regionale.
Il tutto con l’obiettivo di un incremento dei controlli del 10 % (1.000 aziende/anno su tutta la Lombardia), obiettivo di per sé sicuramente positivo se ben articolato e non fatto a casaccio.
Qualche dubbio sorge quando si cerca di capire cosa si intende per “controlli” ovvero per prevenzione, si includono gli “audit” che comprendono “assistenza alle associazioni datoriali e sindacali per l’individuazione delle soluzioni ai fini di un loro riconoscimento delle buone prassi”.
Quindi “controlli” anche senza necessariamente andare nei luoghi di lavoro, anche solo sulla “carta”.
Inoltre, assistenza fa rima con consulenza, ovvero con una pratica esplicitamente vietata, perlomeno per chi svolge i controlli “veri”, entrando (non sempre agevolmente) nei luoghi di lavoro.
Una candelina in questo “nuovo approccio” è stato un recente convegno regionale (i tecnici che lo hanno frequentato erano considerati in servizio e con crediti ECM) dove si è discusso approfonditamente se fossero meglio azioni di “enforcement” (vigilanza) o di “empowerment” (assistenza) o una “coniugazione” di entrambe …. Una discussione sul “sesso degli angeli” .
Non solo non si intende punire chi ha l’obbligo (i datori di lavoro) di garantire la sicurezza ai lavoratori ma si tenta un approccio “soft” per non spaventarli troppo, mica che si rendano conto delle loro responsabilità o magari, di propria spontanea iniziativa diventano eticamente sensibili e smettono di risparmiare sulla sicurezza, sia mai che potrebbero perfino “pagarla” in termini di sanzioni e di procedimenti penali !
Nel mentre che ci si culla tra questi dilemmi (nei convegni e negli uffici dirigenziali) i lavoratori muoiono o si ammalano nelle fabbriche (per nuovi o vecchi rischi) come nelle strade.

Ma il contesto recente in cui si inseriscono le notizie relative alla vicenda Lamina, non finisce qui: con la Legge di Bilancio (L 145/2018) uno tra gli innumerevoli commi ha previsto l’incremento (dal 1.01.2019) delle sanzioni anche in materia di sicurezza sul lavoro nella misura del 10 % rispetto a prima (importi peraltro già aumentati da luglio 2018), introducendo anche delle “aggravanti” (ulteriori maggiorazioni se a un medesimo datore di lavoro viene contestato il medesimo illecito nell’arco di tre anni, ovviamente da adesso, non retrospettivamente).
Fin qui nulla di nuovo, lo Stato non riuscendo a far rispettare le norme (con controlli) le inasprisce preferendo la sceneggiata mediatica dell’aumento delle pene per risparmiarsi la fatica quotidiana di dare certezza del controllo e della pena.
Ma vi è una ciliegina interessante e aggiuntiva : una parte dell’introito delle sanzioni (fino a 15 milioni a livello nazionale), finisce in un fondo risorse dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e, previa contrattazione con il sindacato, nello stipendio dei lavoratori di questo nuovo ente (che ha “riunito” gli ispettori di INPS e INAIL, ad oggi senza alcun miglioramento delle attività ispettive).
In altri termini, gli ispettori “ministeriali” verranno incentivati ad essere rigorosi nei controlli (a fare il loro lavoro) da un diretto tornaconto stipendiale.
Viceversa chi produce il 90 % e più delle ispezioni in materia di sicurezza sul lavoro con i relativi atti sanzionatori come nel caso della Lombardia (i tecnici ASL/ATS con gli oltre 8 milioni di euro di cui si parlava prima) continueranno a farlo, a parità di stipendio (e fin qui, ci mancherebbe il contrario), vedendo gli introiti dirottati per nuove assunzioni comunque necessarie per non azzerare i servizi (fossero almeno a tempo indeterminato), per consulenze di esterni e per non meglio precisate attrezzature continuando ad avere difficoltà a vedersi riconosciuti anche solo gli straordinari (per motivi di servizio, non per divertimento) e, è l’esempio della ATS di Milano, a dover garantire “pronta disponibilità” anche di notte e nei w.e. in due tecnici sull’intera provincia.

Ma torniamo al discorso iniziale. La vicenda della Lamina ha attivato la danza che si è sintetizzata sopra che sta partorendo un topolino (i servizi di prevenzione delle ATS continuano a non avere personale sufficiente, un numero importante di tecnici riusciranno ad andare in pensione nei prossimi anni senza avere il tempo e la possibilità di consegnare una cultura e una conoscenza adeguata ai rari nuovi assunti, per lo più precari, le attrezzature non ci sono – e non ci saranno – o saranno lasciate al degrado). Dopo tutto ciò la vicenda Lamina sembra destinata a partorire un topolino giudiziario.
Ma per quest’ultimo aspetto occorre considerare un aspetto : se la Procura sarà disponibile al patteggiamento della condanna lo sarà anche grazie alle vittime (i famigliari) che hanno accettato indennizzi per 4 milioni di euro e quindi sono uscite dal processo (anche l’INAIL è stata indennizzata : ma questo è normale per un ente assicuratore che cura esclusivamente gli aspetti economici anche se il governo precedente, quello attuale e anche i sindacati principali desiderano un suo ruolo maggiore nel campo del controllo e della prevenzione: tanto è lontana e desueta la pratica della autoorganizzazione dei lavoratori per individuare e pretendere la sicurezza in fabbrica come fuori dalla fabbrica !).
Poco tempo fa il legale della Lamina poteva dichiarare che “essere arrivati in tempi così veloci a risarcire le famiglie è un risultato di grande rilievo dal punto di vista umano e della solidarietà (sic !), ma anche processuale perché ci permette (al padrone … ndr) di affrontare il procedimento con più serenità”.
Affermazioni del genere chiariscono come è più difficoltoso arrivare (almeno) una giustizia per le vittime quando queste ultime fanno un passo indietro dal processo penale.
E’ comprensibile che le vittime vogliano essere indennizzate ma devono comprendere che, in questo modo, la giustizia rallenta, si ferma o viene resa meno incisiva, un’aula deserta (anche se poi la piazza è piena) non induce il giudice al rigore, il contrario.
Come associazione l’abbiamo visto verificarsi molte volte (processo Eternit, processo Enel di Turbigo), come associazione abbiamo finito in molte occasioni a svolgere un “vicariato” rispetto alla vittime prendendoci carico degli effetti (anche economici) delle sconfitte.
E’ un tema complesso in cui le posizioni, in particolare tra le diverse associazioni che hanno quale ragione d’essere anche la giustizia di fronte ai delitti contro i lavoratori e/o l’ambiente, sono diverse, in particolare tra chi, astrattamente, indica il procedimento civile (per definizione con un esito di solo indennizzo) come preferibile a quello penale (più difficoltoso e con esito meno scontato).
Sul tema possiamo concludere – al momento – con le considerazioni che condividiamo del Prof. Luca Masera nel convegno organizzato il 20.10.2018 a Milano (a breve sarà disponibile il numero “cartaceo” della nostra rivista con gli atti) : “ha senso continuare sulla strada del penale anche se le delusioni sono state tante, perché sono stati tanti i processi che si sono conclusi con esito sfavorevole alle persone offese? Io credo di sì, e su questo sono assolutamente d’accordo con il senatore Casson. Sono assolutamente d’accordo, prima di tutto per un motivo contingente: nel nostro ordinamento la risposta civilistica non funziona, perché nel nostro ordinamento la Class Action che c’è negli Stati Uniti, da noi non è applicabile. Non funziona per una serie di ragioni tecniche e anche perché da noi non esistono i cosiddetti “danni punitivi” (che portano a un risarcimento che supera il semplice compenso del danno subito), che sono uno strumento formidabile in mano ai giudici americani per poter sanzionare le multinazionali e i responsabili di esposizione pericolose. Da noi la strada del processo civile vede il singolo contro la grande industria, e questo crea una disparità di forze che rende sostanzialmente impercorribile questa strada. Quindi il diritto penale non lo dobbiamo abbandonare, sostanzialmente perché in Italia non abbiamo molti altri strumenti.
C’è però un motivo più forte. Io credo che applicare il diritto penale – questo ce l’ha insegnato benissimo Luigi Mara – equivale a porre la salute su un piano superiore, un piano sul quale non esiste possibilità di monetizzazione. Questo è un insegnamento fondamentale. Una prospettiva sostanziale che ci dà il ricorso al diritto penale è quella che richiama al valore etico della responsabilità individuale, perché se ci spostiamo sul diritto civile la nostra controparte non è più il singolo ma è la società multinazionale, l’impresa. Invece, richiamare il singolo alle proprie responsabilità da un punto di vista non soltanto giuridico ma etico è particolarmente importante. È più facile per il singolo nascondersi dietro il paravento del sistema. Si usa dire che i reati di cui stiamo parlando sono “crimini di sistema”; è una terminologia che non mi piace per nulla. Non sono crimini di sistema, sono crimini che qualche soggetto ha portato avanti. Non sono crimini del sistema o del modello di sviluppo industriale. Chiamarli così significa assolvere tutti, perché se c’è un crimine di sistema, allora nessuno è responsabile
. “

Marco Caldiroli

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