Tassa si o tassa no (sulla plastica) è questo il dilemma ?

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Oggi si parla nuovamente di una tassa sulla plastica. Nuovamente, perché il primo tentativo risale al 1988 con la legge n. 475. Questa norma, nel solco dell’obiettivo precedente (legge 441/1987 che prevedeva la fabbricazione di shopper biodegradabili entro il 1989) introduceva anche una “tassa di scopo” di 100 lire per ogni sacchetto non biodegradabile. Introduceva un contributo per il riciclo dei contenitori per liquidi (dal marzo 1993) graduato per dimensione, fino a 100 lire per un imballaggio da 1 litro, qualora non si fosse arrivati ad un riciclo del 40 % delle plastiche immesse al consumo. Sappiamo come sono finite queste buone intenzioni : la tassa sugli shopper è stata quella più evasa nella storia della Repubblica, il contributo al riciclo è stato prima rinviato e poi cancellato dal decreto Ronchi (dlgs 22/1997). In parte è stata reintrodotta e vigente con il recepimento della direttiva imballaggi e con l’istituzione dei consorzi obbligatori (prima REPLASTIC ora COREPLA per la plastica da imballaggio).
Mentre si discute della nuova tassa vi è una campagna mediatica che sostiene inutile raccogliere la plastica in modo differenziato perché la maggior parte (70 %) finirebbe negli inceneritori. La plastica è uno dei materiali più ostici al riciclo per la varietà di merci che la contengono e per la varietà di polimeri utilizzati (poliaccoppiati inclusi) La plastica mista è un problema irrisolto (anche se soluzioni non distruttive esistono), da quando la Cina non l’accetta più, gli incendi negli impianti di stoccaggio si sono moltiplicati.
Le stime Corepla per il 2018 indicano un immesso in consumo di imballaggi in plastica pari a 2.320.000 t a fronte di poco più di 1 milione di t raccolte e avviate a riciclo (il 44 %) e 946.000 t a recupero energetico (scarti e quota contenuta nei rifiuti indifferenziati, ben pagata agli inceneritori così che poi Corepla la qualifica nelle statistiche come recupero). Questi numeri mostrano i limiti della politica “condivisa” (suddivisa tra produttori, imballatori e consumatori ovvero gli enti pubblici deputati alla raccolta) : gli imballaggi in plastica continuano a incrementarsi di anno in anno (la riduzione in peso del singolo prodotto non basta a compensare l’aumento nel numero dei prodotti) e l’incenerimento, soprattutto degli imballi primari (quelli “domestici”) aumenta falsando obiettivi e risultati.
L’Unione Europea, nell’ambito delle politiche volte alla “economia circolare”, ha introdotto correttivi (ma è ancora lontana una politica di responsabilità “estesa” costituita principalmente da obblighi a carico del produttore sui suoi prodotti anche post consumo). Le nuove direttive quadro sui rifiuti e sui rifiuti da imballaggio del 2018, tra l’altro, indicano un obiettivo di riciclaggio di almeno il 55 % della plastica da imballaggio immessa al consumo unitamente a politiche di riutilizzo, prevenzione e riduzione. Concorre al tema l’esplicito giudizio negativo relativo al ruolo dell’incenerimento nella economia circolare contenuto nella comunicazione del 26.01.2017. Ancora più esplicita la direttiva (904/2019) sulle plastiche monouso cui intende richiamarsi la proposta in discussione. Se parliamo di aspetti economici e merci/ ambiente, la criticità principale è che il prezzo al consumo non rappresenta il “vero costo” ambientale delle materie e dei processi di trasformazione inclusi nel prodotto. I prodotti più ambientalmente sostenibili hanno un costo maggiore rispetto a quelli che “contengono” maggior inquinamento. Invertire tale svantaggio per i primi è una priorità e nel contempo uno strumento (per contrastare i cambiamenti climatici come per ridurre la contaminazione dei nostri corpi – da microplastiche incluse – e quindi tutelare, da subito, la nostra salute).
La volontà virtuosa di introdurre una tassa sulla plastica si scontra con aspetti pratici che vanno ben valutati, in particolare in quale punto della filiera e con quali modalità prevederla (per renderla efficace e evitare l’evasione). Contro tale prospettiva se ne sono sentite di tutti i colori; a parte la previsione di sfracelli industriali si è arrivati ad affermare che una tassa di 1 euro al kg di plastica determinerebbe un incremento di 50 centesimi su una singola bottiglia di acqua minerale, ciò è matematicamente infondato: considerando una bottiglia da 1 litro (peso medio 30 grammi), trasferire integralmente la tassa sul prezzo al consumo, aumenterebbe il suo costo di 3 centesimi. La questione è un’altra : se si vuole utilizzare una leva fiscale per ridurre lo spreco di risorse e il rilascio ambientale l’obiettivo più sensato è quello di tassare le merci monouso (di qualunque materiale) e non la materia prima successivamente utilizzata nella loro produzione. Questo permetterebbe di sottoporre al prelievo anche la plastica proveniente da altri paesi e non solo quella prodotta in Italia (obiezione che è stata sollevata). Così come, per esempio, nel caso dei prodotti imballati che vanno in Germania da ogni paesi, sottoposti al contributo del “Grune Punkt” (il punto verde).
Come detto la direttiva contiene già l’elenco dei prodotti da considerare monouso. Ancor meglio (alcuni, anche industrie, l’hanno proposta come alternativa alla tassa) reintrodurre la cauzione; modalità presente per le bottiglie, pur parzialmente e in modi diversi, in diversi Paesi in Europa e pratica da anni proposta dagli ambientalisti quale “ritorno al futuro”. E se il dilemma attuale portasse infine a rinverdire questa pratica ancor più virtuosa ? Quindi un mix di leve fiscali sui prodotti “peggiori” di sistemi di “ritorno” con estensione della responsabilità ai produttori e a chi immette al consumo merci monouso, di plastica e non solo.

Marco Caldiroli