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Reati contro il lavoro: vittime irrilevanti, pene inesistenti.
Pubblichiamo l’articolo scritto da Stefano Palmisano ed apparso sul "Quotidiano di Brindisi" il 21/05/07
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È ancora lunga e irta di ostacoli la strada da fare per provare almeno a ridimensionare l’elenco quotidiano dei morti sul lavoro, quella specie di bollettino di una delle guerre più sporche, perchè non dichiarata e soprattutto perchè combattuta contro civili inermi e, per molti versi, inconsapevoli di essere in prima linea piuttosto che in un cantiere.

Ma, prima ancora che lunga e accidentata, quella che realmente può portare al doveroso obiettivo di salvare qualche vita di lavoratore in più è una strada difficile da individuare, se, com’è tristemente evidente, c’è ancora tanta approssimazione in giro su alcuni aspetti nodali della questione; in primis, quello della repressione penale di un fenomeno che è, comunque, anche, se non soprattutto, criminale.

L’esempio più mirabile, in tal senso, riguarda il vagheggiato “Testo unico sulla sicurezza”, mitica panacea della gran parte dei mali e dei rischi da lavoro nella considerazione di tanti, anche onesti, addetti ai lavori.

Lo Schema di disegno di legge recante: “Delega al governo per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e la riforma della salute e sicurezza sul lavoro”, approvato dal Consiglio dei ministri il 16 febbraio scorso, prevede al n. 2, lettera f) (“riformulazione e razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, ....”), co. 2, art. 1 dell’articolato la “determinazione delle sanzioni penali dell’arresto e dell’ammenda, previste solo nei casi in cui le infrazioni ledano interessi generali dell’ordinamento [....] da comminare in via esclusiva ovvero alternativa...”

Tradotta dal lessico normativo, questa direttiva, che dovrebbe “riformulare e razionalizzare l’apparato sanzionatorio”, altro non vuol dire che le violazioni di norme antinfortunistiche da parte dei datori di lavoro e degli altri soggetti tenuti rimarranno contravvenzioni, ossia il tipo di reati più lieve previsto dal nostro ordinamento, reati puniti secondo il codice penale con le pene dell’arresto, che “si estende da cinque giorni a tre anni” (art. 25 c.p.), e\o dell’ammenda, che “consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a euro 2 (sic!) né superiore ad euro 1.032.” (art. 26 c.p.).

Non è affatto superfluo rimarcare, come afferma la stessa legge delega, che i due tipi sopra citati di sanzioni draconiane possono essere comminati “in via esclusiva ovvero alternativa.” Per proporre un esempio che in questo territorio, per talune vicende, peraltro sempre meno note, dovrebbe risultare illuminante, un datore di lavoro che non adempia l’obbligo su di lui gravante di “adottare appropriate misure tecniche ed organizzative, al fine di ridurre ai valori più bassi le concentrazioni di cloruro di vinile monomero cui i lavoratori sono esposti” (art. 3, c. 1, l. 962\1982), è punito “con l’ammenda da L. 1.500.000 a L. 3.000.000” (art. 13, c. 1).

Solo “nei casi di particolare gravità i trasgressori sono puniti con l’arresto fino a tre mesi.” (art. 13, c. 2). E’ solo uno dei millanta esemplari della variegata flora legislativa contenuta nella giungla del nostro diritto penale del lavoro, ma rende perfettamente l’idea di quale valenza fondamentale potrebbero avere questi reati (se fossero realmente applicati) e le relative sanzioni (se fossero appena men che ingiuriosamente risibili) una volta tanto addirittura in chiave preventiva, e non solo meramente repressiva, rispetto all’effettiva salvaguardia del bene giuridico sostanzialmente tutelato dalle medesime norme, ossia la salute e la stessa vita dei lavoratori.

Com’è, invece, perfettamente comprensibile da chiunque, l’entità microscopica della sanzione, la mortificante sproporzione tra la stessa ed il titanico precetto (la tutela della vita e dell’integrità dei lavoratori di fronte a micidiali serial killers come il cvm e coloro che ne hanno permesso la libera circolazione nei posti di lavoro) del quale essa è posta a presidio, rende desolantemente anche quella norma, come la stragrande maggioranza di quelle poste a difesa del lavoro e dei lavoratori, appena meno seria ed imperativa di una grida della Milano del diciassettesimo secolo. A tacere degli effetti, altrettanto poco salubri, che ha la natura contravvenzionale di questi reati sulla prescrizione degli stessi, prima causa di mortalità dei processi penali in Italia, giacchè la regola in materia prevista dal nostro codice penale è che le contravvenzioni si prescrivono in quattro anni dalla commissione del reato; termine nel quale di regola, in Italia, non si riesce ad arrivare neppure alla sentenza di primo grado.

Questo luminoso scenario normativo, ma prima ancora, ovviamente, politico-culturale, di perenne amnistia, più che strisciante, marciante a passo di carica, meno di un anno fa è stato impreziosito dalla perla dell’indulto che ha coperto, in tutti i sensi, anche i crimini contro il lavoro; e non certo solo le contravvenzioni in materia antinfortunistica, bensì anche gli stessi omicidi colposi. Per quanto sopra illustrato, questo brillante scenario rimarrà sostanzialmente immutato anche con il cosiddetto “Testo unico sulla sicurezza del lavoro”.

Sì, la strada da fare contro le morti da lavoro è lunga e perigliosa; ma, prima ancora, difficile da individuare. Anche e soprattutto per questo, prima di incamminarcisi, bisognerebbe provare a consultare una mappa.

Fasano, 18\5\2007

Stefano Palmisano




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