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SALUTE E PRECARIETA’ DEL LAVORO
13 giugno 2007
pubblicato da: Medicina Democratica
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Nella storia del lavoro prima e dopo la rivoluzione industriale gli infortuni e le malattie da lavoro sono stati considerati connaturati al lavoro ed in un certo modo inevitabili. Fino alla fine degli anni 60 la salute, ovvero le condizioni di organizzazione del lavoro e di nocività che portavano agli infortuni e alle malattie professionali, veniva semplicemente monetizzata.

In Europa ed in Italia dopo le lotte sindacali degli anni 68-72, anche al seguito della nascita degli organismi internazionali del lavoro, delle direttive della Unione Europea il problema è stato posto. In questo mesi ad esempio in Italia gli infortuni sul lavoro sono stati posti all’ordine del giorno con interventi autorevoli come quelli del Presidente della Repubblica e di quello della Camera dei Deputati.

Se le garanzie sindacali e di legge hanno prodotto una notevole riduzione degli infortuni (non si può dire altrettanto per le malattie professionali) fra i lavoratori delle grandi e medie aziende, comunque fra i lavoratori assunti regolarmente e a tempo indeterminato, non così è successo e sta succedendo fra chi ha un rapporto di lavoro precario o lavora “in nero”.

Fuori dai paesi occidentali, specie nei paesi a sviluppo accelerato, i morti sul lavoro non sembra costituiscano un problema. A centinaia i minatori cinesi trovano la morte ogni anno, ma non sembra che a qualcuno importi. Da noi, in Europa, in dimensione minore, ma altrettanto gravemente, importa di meno se a cadere vittima di un infortunio sia un lavoratore immigrato.

I lavoratori precari, sono in gran parte lavoratori autonomi che diventano per periodi più o meno lunghi, con giornate di lavoro brevi, lunghe o lunghissime collaboratori di un’azienda che in pratica li usa come e quando vuole. La loro caratterizzazione è la flessibilità.

Si tratta di lavoratori che in genere non hanno molte possibilità di difesa sindacale, facilmente ricattabili, caratterizzati dall’accettazione di qualsiasi forma di organizzazione del lavoro, con salari generalmente bassi e privi o quasi di contribuzione previdenziale. Ora si trovano in questa condizione non solo i giovani, ma anche molti giovani adulti.

E’ evidente che la difesa della condizione di salute diventa secondaria, a volte nemmeno viene percepita come coscienza e se lo è viene immediatamente messa da parte.

Una situazione che ricorda il primo secolo di rivoluzione industriale in cui gli operai costretti a subire orari di lavori impressionanti e salari bassi, accettavano, loro malgrado, di perdere anche nel breve periodo la loro salute

Lavoratori precari sono anche i lavoratori in nero che potrebbero essere distinti come una categoria caratterizzati ancora da peggiori condizioni, per la gran parte si tratta di immigrati che assommano alla precarietà del lavoro anche la precarietà della vita, cioè dell’abitazione, delle garanzie sanitarie, dell’emarginazione sociale e culturale.

Secondo un’indagine del sindacato dei lavoratori precari della CGIL (è importante sottolineare che i precari hanno iniziato ad organizzarsi) dal 2002 al 2004 si è registrato in Italia un aumento degli infortuni sul lavoro del 25,9%, passando da 5.904 a 7.438. Nel 2005 hanno subito infortuni ben 7678 lavoratori atipici (+ 3,25%). Sempre nel 2005 fra questi lavoratori 13 hanno trovato la morte.

Questi lavoratori (collaboratori - lavoratori a progetto) vengono utilizzai anche nell’industria. In nn confronto con i lavoratori interinali (lavoratori assunti da una società e da questa inviati in varie aziende secondo necessità) sempre nel 2005 ha fatto registrare ben 13.361 infortuni, con 8 incidenti mortali, quindi meno dei 13 registrati fra gli atipici.

Nel 2005 sono state 1650 le ispezioni degli Istituti previdenziali nelle aziende che impiegano questi lavoratori. Per quanto si sia trattato di pochissime ispezioni per mancanza di personale ispettivo adeguato, si è potuto verificare che nel 76% dei casi le collaborazioni mascheravano rapporti di lavoro di dipendenza. Un’ispezione ha pure fatto scoprire che 232 aziende committenti non hanno mai assicurato 2.899 lavoratori costringendoli quindi a lavorare in nero.

Lavoratori atipici, interinali, lavoratori in nero sono anche accomunati dallo svolgere attività nocive, manipolare sostanze tossiche senza protezione. Non è difficile incontrare situazioni cui ai lavoratori immigrati ad esempio viene affidato il compito di operare bonifiche di manufatti contenenti amianto senza informazioni e senza tutele.... Tanto ci vorranno anni prima che si manifesti qualche malattia asbesto correlata anche grave e sarà molto difficile dimostrarne la causa e le responsabilità.

La commissione parlamentare di indagine sugli infortuni (Senato della Repubblica italiana, nella sua relazione finale del 23 marzo 2006 ha osservato che per i lavoratori immigrati, negli ultimi anni, il tasso di infortuni denunciati all’INAIL (sul totale relativo a tutti i lavoratori) ha superato, in base ad un preoccupante e netto andamento di crescita, il valore del 13%.

All’interno di tale percentuale, una quota assolutamente preponderante - superiore al 90% - concerne i lavoratori extracomunitari (non considerando naturalmente tra questi ultimi quelli provenienti da Paesi che fanno attualmente parte, in seguito all’ultimo allargamento, dell’Unione europea).

Diverse appaiono le cause della gravità dei dati suddetti: la pericolosità delle attività svolte (la distribuzione dei lavoratori extracomunitari per settore di attività è concentrata prevalentemente nell’edilizia e nell’industria dei metalli); l’inesperienza (dovuta spesso anche alla giovane età) e la mancanza di un’adeguata informazione e formazione professionale; gli orari di lavoro, sovente eccessivi e debilitanti; le barriere linguistiche, che rappresentano un fattore di rischio - basti pensare, come esempio eclatante, alla mancata comprensione della segnaletica sul luogo di lavoro - nonché di ostacolo all’informazione e formazione.

Il lavoro irregolare, sicuramente comprensivo del lavoro nero e di gran parte di quello minorile e di quello extracomunitario, dilata in maniera esponenziale l’area dei rischi lavorativi, occulta un numero elevatissimo di infortuni - dal dieci al venti per cento di quelli denunciati - e fa emergere qualche dubbio sulle effettive dimensioni della riduzione complessiva degli infortuni medesimi negli ultimi anni.

Tale estesa anomalia risponde, tra l’altro, a molteplici variabili politiche, economiche e sociali e trova fertile humus sia nelle tendenze aziendali alla riduzione del costo del lavoro sia in un contesto socio-economico nel quale la necessità di guadagno costringe un numero sempre maggiore di persone a rinunciare a tutele e garanzie.

Tra i lavoratori in nero vanno compresi anche i lavoratori immigrati clandestini, i quali, praticamente privi di ogni diritto, sono costretti ad accettare qualunque condizione, rischiando, in caso d’infortunio, la mancanza di soccorso e l’abbandono in località lontana dal cantiere (come è successo in un caso concreto).

Solo marginalmente più favorevole è la posizione del lavoratore immigrato con permesso di soggiorno, il quale è pur sempre indotto dal bisogno ad accordarsi con il datore di lavoro nell’elusione della normativa previdenziale ed a prestare la propria opera in condizioni più rischiose (rispetto a quelle ordinarie).

L’esercito dei lavoratori in nero in Italia conta 3,3 milioni di persone (di cui 1,5 milioni al Sud e 1,8 al Centro-Nord), concentrate in larga parte nei settori delle costruzioni, dei servizi - con particolare riguardo al lavoro domestico retribuito di collaboratori familiari e badanti -, del commercio, del tessile, abbigliamento e calzaturiero, nonché, soprattutto al Sud, nel settore agricolo. L’occupazione irregolare è presente per il 24,3% nel Centro Italia, per il 18,9% nel Nord-Est, per il 20,1% nel Nord-Ovest e per ben il 36,7% nel Mezzogiorno, dove un lavoratore su 4 è in nero. Il fenomeno, quindi, sebbene diminuito negli ultimi anni sul piano nazionale, torna a crescere al Sud, con picchi elevati in Calabria, in Campania e in Sicilia.

L’ISTAT (Istituto centrale di statistica) quantifica in circa 516.000, solo nei settori agricolo e delle costruzioni, le unità di lavoro non regolari riferite a cittadini stranieri non comunitari; ad essi sono da aggiungere i lavoratori impegnati nei servizi alla persona, nelle imprese manifatturiere o in quelle tradizionalmente ad alta irregolarità (bar, ristoranti, agriturismi ecc.).

L’estrema debolezza economica, sociale e giuridica dei lavoratori extracomunitari li espone alle lusinghe ed al ricatto del lavoro nero, soprattutto in settori produttivi "polverizzati" come l’agricoltura.

Le cifre attestano un livello di rischio del lavoro degli extracomunitari molto più elevato rispetto alla media degli altri lavoratori.

L’INAIL indica che nel 2004 gli infortuni tra i lavoratori extracomunitari sono stati 116.000, con una crescita del 6% rispetto al 2003 e del 25% rispetto al 2002; nello stesso anno, la quota di infortuni mortali relativa a lavoratori extracomunitari è stata pari a circa il 13% (rispetto al totale degli eventi mortali medesimi). Si calcola che il tasso di incidenza degli infortuni sia di circa 65 infortuni denunciati su 1000 assicurati, contro un tasso di poco superiore a 40 punti per gli occupati nel loro complesso.

Tra le cause di tale elevata “rischiosità”, la pericolosità dei lavori cui questi lavoratori sono adibiti (costruzioni ed industria dei metalli), la scarsa attuazione delle norme di sicurezza e la mancanza di formazione professionale adeguata, caratteristiche peculiari del predetto fenomeno.

Tra gli extracomunitari infortunati circa la metà proviene da Marocco, Albania e Romania, mentre, stranamente, pochi sono gli infortuni denunciati dalle pur numerose comunità di lavoratori filippini e cinesi.

Data la stretta relazione tra lavoro nero e migrazioni clandestine, la corretta gestione dei flussi migratori, ormai una risorsa della nostra economia, costituisce pure un valido strumento per arginare il lavoro sommerso.

Quasi interamente al mondo del lavoro nero appartiene, ovviamente con le sue specificità, anche il lavoro minorile, fenomeno in sicura espansione.

Pur nelle ovvie difficoltà di quantificazione, l’ISTAT stima in almeno 145.000 (escludendo da tale calcolo i minori immigrati ed i rom) il numero dei minori tra gli 11 ed i 14 anni di età coinvolti in attività lavorative (valore pari al 3,1% del totale dei minori compresi nella suddetta fascia anagrafica). Secondo altre stime, invece, i minori che lavorano, rom ed immigrati compresi, si avvicinerebbero alle 400.000 unità.

Le statistiche collocano l’Italia ben oltre la media europea (1,5%) e, comunque, oltre la media dei principali Paesi dell’Europa occidentale (2%).

Da una ricerca effettuata in alcune grandi città italiane (Torino, Milano, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Catania) emerge che nel nostro Paese lavora un minore su cinque, con punte elevate in tutto il Mezzogiorno e nel Nord-Est, aree contraddistinte da modelli produttivi quasi antitetici.

Trattasi di forme di lavoro stagionali o occasionali, che riguardano prevalentemente l’agricoltura, le piccole aziende manifatturiere, il commercio, la ristorazione, alcuni settori dell’artigianato. Prevalgono le collaborazioni con i genitori (70%) o le occupazioni presso parenti o amici (20,9%), e solo il 9,1% riguarda attività svolte presso terzi. .

Nella banca dati INAIL non risulta ovviamente “alcun evento occorso a infortunati di età inferiore a quella minima legale”, mentre, nell’anno 2004, risultano denunciati 9.496 infortuni relativi a minori degli anni diciotto (con una percentuale, molto vicina al 9% del totale degli infortuni denunciati, sicuramente viziata dall’occultamento degli eventi).

Un settore dove gli infortuni sono più frequenti e più gravi è quello dell’edilizia. L’edilizia è pure il settore dove i lavoratori precari e in nero sono più presenti. Le tabelle sugli infortuni in evidenziano aumenti, anche considerevoli, sia dei dati generali sia di quelli relativi alle morti.

Tra le cause principali di infortunio mortale vi è la caduta dall’alto. Nelle microimprese (da 1 a 9 addetti), il rischio di infortunio mortale è superiore di circa 10 volte a quello che presentano le medie imprese (50-249 addetti). Tale dato è tanto più allarmante in quanto l’attuale dimensione media delle imprese edili con dipendenti è inferiore ai 5 lavoratori/anno e, secondo dati INAIL, sulle circa 730.000 aziende del settore, ben 400.000 sono imprese individuali. I problemi di sicurezza riscontrati più spesso riguardano l’assenza o l’insufficienza di protezioni e le inadeguatezze strutturali. La violazione della normativa costituisce la principale causa di morte sul lavoro nel settore.

L’alta percentuale di infortuni occorsi il primo giorno di lavoro è un indicatore di lavoro irregolare che emerge al momento dell’incidente, in particolare un incidente mortale. (Ora una norme recente in Italia ha stabilito che l’assunzione deve avvenire il giorno prima dell’inizio del lavoro). Di nuovo, la concentrazione degli infortuni nei primissimi giorni di lavoro è ancora più accentuata nelle microimprese.

Dalle cause ai rimedi

La precarietà del lavoro produce più infortuni e più malattie professionali. E’ evidente che il rimedio consiste nell’eliminarla. Il sistema capitalista impone nella attuale condizione di mercato che esso stesso genera, di utilizzare i lavoratori nel modo “più libero” possibile. Le lotte e le leggi, quindi i lavoratori organizzati e l’organizzazione pubblica hanno cercato di impedire che la libertà dell’impresa si trasformasse in totale arbitrio, quindi di limitare i danni. In effetti nonostante il grande sviluppo tecnologico e scientifico siamo solo per moltissimi lavoratori, come abbiamo visto, alla riduzione del danno.

Marx diceva che al padrone non interessa nulla della vita e della salute dell’operaio se non ci sono le leggi che glie lo impongono. A volte le leggi ci sono, almeno quelle che riguardano la tutela della salute, ma sono scarsamente applicate, oppure a monte ci sono leggi, come quelle che liberalizzano il mercato del lavoro, che inventano decine di forme di lavoro precario, che le contraddicono.

Immaginiamoci cosa sarebbe stato per la salute dei lavoratori se fosse passata integralmente la proposta di direttiva Bolkestein. Sappiamo però che pur non essendo stata approvata in tutta la sua malvagità, la linea della liberalizzazione in Europa come negli stati che la compongono, è quanto mai attuale.

Le forme di lavoro precario devono essere eliminate, almeno progressivamente limitate a delle eccezioni e per brevi periodi, soprattutto impedendo che il precariato diventi stabilità come succede per tutti i tipi di lavoro da quello manuale e quello dei ricercatori. Già questo dovrebbe avvenire nel sistema pubblico. Ad esempio abbiamo nel sistema sanitario italiano una buona parte di lavoratori (almeno un quarto) sono “esternalizzati”, cioè lavorano per il pubblico, ma sono inquadrati in imprese private, in molti casi anche a svantaggio dei cittadini utenti, per mancanza di preparazione, o anche per stanchezza, quando per i bassi salari sono costretti a fare un doppio lavoro.

E poi c’è il sistema dei controlli i cui operatori potrebbero essere pagati dai risultati economici che tali controlli producono. Non è pertanto vero che si devono limitare al di sotto del minimo le loro assunzioni. E’ inutile avere le leggi se poi queste sono non applicate o applicate solo in parte.

Nondimeno gli interventi di politica economica dei governi dovrebbero tendere ad aumentare la dimensione delle imprese. Queste se piccole e piccolissime, nel numero degli addetti, sono da un lato difficilissime da controllare e dall’altro, come abbiamo visto, sono quelle in cui l’incidenza di infortuni è più elevata.

E poi vi è un lavoro diretto a difesa della salute.

-  a)Tutti i lavoratori dovrebbero essere dotati di un libretto sanitario conservato in doppia copia e aggiornato dal medico di medicina generale e dal medico competente (il medico nel luogo di lavoro),

-  b)Devono esserci le registrazioni puntuali degli infortuni e delle malattia da lavoro, particolarmente dei tumori professionali; le statistiche (incidenza e prevalenza) devono essere rese pubbliche, indicando i nomi delle aziende da dove malattie e infortuni provengono.

Ad esempio in una regione italiana, il Veneto, dove l’autorità preposta alla compilazione del registro dei mesoteliomi (la gravissima malattia che deriva dall’esposizione all’amianto), ha pubblicato non solo il numero dei casi incidenti, ma anche il luogo (l’azienda) dove gran parte di questi si sono verificati. E’ successo che l’autorità politica regionale tiene nascoste le pubblicazioni e non le diffonde invocando la privacy...)

-  c)La grossa difficoltà per i lavoratori precari è la loro capacità di difesa sindacale, e questo si ripercuote anche nel campo della difesa della salute. Diventa indispensabile che gli organismi sindacali territoriali e di luogo di lavoro se ne facciano carico; in altri termini dove non arriva il singolo, perché precario, ci deve arrivare l’organizzazione.

Ad esempio i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) che derivano dalle direttive della UE sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, devono essere organizzati anche su base territoriale e non solo aziendale per comprendere anche i lavoratori precari e irregolari.

-  d)Ci deve pure essere un controllo pubblico sanitario e igienistico-ambientale nei luoghi di lavoro diverso da quello ispettivo del lavoro e previdenziale, pur essendo richiesto un coordinamento fra gli enti. Il controllo sanitario non può essere solo limitato alla sorveglianza sanitaria sugli addetti, ma deve pure riguardare i cicli di lavorazione, l’organizzazione del lavoro, le sostanze utilizzate.

Fulvio Aurora,

Milano 13 giugno 2007


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