SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 17/09/14

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 17/09/14

 

INDICE

 

Carlo Soricelli soricarlo49@gmail.com

PROPOSTE PER FAR CESSARE LA CARNEFICINA DI AGRICOLTORI SCHIACCIATI DAL TRATTORE

 

Comunisti Belgio eberlinguerprc@hotmail.com

ANNIVERSARIO DELLA TRAGEDIA DI MARCINELLE 2014

 

Cobas Taranto slaicobasta@gmail.com

ILVA TARANTO: MORTE OPERAIA, PADRONI, SINDACATO

 

Aldo Arpe arpe_aldo@yahoo.it

L’ITALIA NELLE MANI DI UN BULLO ANTI OPERAIO: E’ L’ORA DELLA LOTTA DI CLASSE CONTRO IL RENZISMO

 

Carlo Soricelli soricarlo49@gmail.com

L’EMILIA ROMAGNA E’ LA REGIONE CON PIU’ MORTI SUI LUOGHI DI LAVORO

 

Alteralias alias.alter@gmail.com

MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA ILVA PER MORTI DI AMIANTO

 

Lavoratori Autoconvocati assemblealavoratori@libero.it

CAMPAGNA INTERNAZIONALE A SOSTEGNO DEI LAVORATORI TURCHI DELLA FABBRICA TESSILE KAZOVA

 

Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com

LA FABBRICA DELLA DISPERAZIONE/4

 

Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com

UN ORSO UCCISO MERITA PIÙ ATTENZIONE CHE LA MORTE DI CENTINAIA DI LAVORATORI CHE MUOIONO PER INFORTUNI SUL LAVORO

 

Cobas Pisa confcobaspisa@alice.it

INCIDENTE MORTALE SUL LAVORO A MONTACCHIELLO (PI)

Michele Michelino michele.mi@inwind.it

IL PREMIO CAMPIELLO AL ROMANZO “LA FABBRICA DEL PANICO” DI STEFANO VALENTI

 

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From: Carlo Soricelli soricarlo49@gmail.com

To:

Sent: Monday, September 01, 2014 8:32 AM

Subject: PROPOSTE PER FAR CESSARE LA CARNEFICINA DI AGRICOLTORI SCHIACCIATI DAL TRATTORE

 

Egregio signor Soricelli,

ho letto l’articolo pubblicato su “iltamtam.it” ed ho visto la relativa foto pubblicata del trattore ribaltato.

Mi sembra si tratti di un FIAT 850 DT con parafanghi rotondi e sui quali non è possibile montare alcun telaio perché troppo deboli per ospitare una struttura di sicurezza: infatti lo si evince dal nome “parafanghi” cioè per riparare dal fango, a differenza di quelli quadrati, rinforzati per poter resistere in caso di ribaltamento. E’ anche vero che i dispositivi di protezione possono essere ancorati su altri punti della trattrice ma bisogna anche considerare l’usura del tempo, ruggine ecc. che possono alterare i supporti.

Il fatto è che queste macchine sono obsolete e secondo il mio modesto parere sarebbero da rottamare perché concepite con criteri di costruzione ormai vecchi.

Bisogna anche superare l’eterna questione che, se un mezzo circola in strada può essere sequestrato, mentre se in un fondo agricolo, essendo luogo privato, può lavorare senza regole: ma è proprio qui che si verifica la maggior parte degli incidenti.

Purtroppo in questo Paese di furbi, e vediamo in che stato siamo ridotti, fatta la legge trovato l’inganno!!!

Speriamo che queste denunce portino a qualcosa.

La saluto, se avesse bisogno mi scriva pure.

Perito Agrario Gatti Antonio

 

PROPOSTE PER EVITARE LE MORTI SUL LAVORO PROVOCATE DAI TRATTORI

Raccolta dei dati relativi alle immatricolazioni dei trattori suddivisi per anno presso le Motorizzazioni Provinciali per poi raggrupparli per Regione.

Coinvolgimento delle Organizzazioni Professionali Agricole e l’UNACOMA (organizzazione che raggruppa i costruttori di mezzi per l’Agricoltura), perché attraverso la loro struttura capillare possano sensibilizzare gli agricoltori, con l’utilizzo di stampa e TV.

Potenziamento degli Ispettorati del Lavoro e INAIL, con inserimento di unità esperte di problematiche agricole (periti agrari, laureati in agraria, o in scienze forestali).

Stanziamento di fondi. Gli agricoltori che sostituiscono mezzi costruiti anteriormente al 1974 con altri sia nuovi, sia usati, ma con relativo certificato che certifichi la loro messa a norma e corredata da relativa fattura di acquisto, dovrebbero poter scaricare parte delle spese dalla denuncia dei redditi. Lo Stato attraverso l’incrocio dei dati avrebbe così la certezza che i fondi stanziati siano utilizzati correttamente.

Recupero dai trattori usati e raccolti presso i rivenditori degli olii contenuti nel motore, cambio ecc. e loro invio al COOU (Consorzio Obbligatorio Olii Usati), poi la separazione delle parti in gomma e plastica e infine per lo smaltimento.

Introduzione di sanzioni sia di carattere amministrativo che penale, per chi tenta di esportare verso paesi extracomunitari, mezzi o attrezzature agricole, prive dei requisiti di sicurezza, approfittando del fatto che nei Paesi in via di sviluppo magari non esistono leggi in proposito. In tal modo si sposta soltanto il problema degli incidenti da un Paese ad un altro.

Possibilità per gli agricoltori di trattenere trattori per la loro rarità o unicità. Tali trattori dovrebbero però essere muniti di una seconda targa che specifichi trattarsi di un mezzo d’epoca ed utilizzati soltanto in occasione di fiere, mostre o rievocazioni storiche.

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From: Comunisti Belgio eberlinguerprc@hotmail.com

To:

Sent: Thursday, September 04, 2014 4:10 AM

Subject: ANNIVERSARIO DELLA TRAGEDIA DI MARCINELLE 2014

 

Sono passati 58 anni da quella mattina del 1956.

262 vite di lavoratori finivano tragicamente, immolate sull’altare del profitto, che per tanti, anche oggi, vale più della vita delle persone.

In un mare di retorica, ci limitiamo a constatare che l’Europa e l’Italia poco o nulla hanno imparato da queste tragedie. I lavoratori continuano a morire sul lavoro e i nuovi migranti vengono poco tutelati, sia come cittadini che come lavoratori.

Il Belgio negli ultimi anni ne ha espulsi dal suo territorio qualche migliaio, con le scuse più fantasiose, nell’indifferenza totale delle istituzioni italiane preposte.

Per ricordare a modo nostro e favorire la conoscenza di quello che è stato, vi riportiamo una recensione del libro-fumetto ”Marcinelle 1956”, uscito qualche anno fa e che racconta questa tragedia.

DALLA DIÁBOLO EDIZIONI IL ROMANZO DI SERGIO SALMA “MARCINELLE 1956”.

Questo drammatico avvenimento storico viene ripercorso nel romanzo di Sergio Salma “Marcinelle 1956” pubblicato dalla Diábolo Edizioni.

Nel libro Salma rende omaggio ai 262 minatori morti nell’agosto del 1956 nella miniera di carbone del Bois du Cazier attraverso la ricostruzione della vicenda umana di Pietro Bellofiore, giovane minatore appena giunto dall’Italia, nei sette mesi che precedettero la catastrofe.

Fra la chiesa e la famiglia, il lavoro massacrante e i rari momenti di felicità strappati alla quotidianità (la prima Vespa!), Pietro fa un incontro che lo spingerà fuori dai binari della sua vita di emigrante e che forse gli consentirà di sottrarsi al proprio destino.

Sergio Salma (Charleroi Belgio, 1960) trascorre l’infanzia nei quartieri operai nati all’ombra della crescente industria mineraria belga e fin da adolescente sviluppa la sua passione per la bande dessinée.

Le sue prime pubblicazioni appaiono sulla rivista belga “À suivre”. E’ autore dei venti album della serie giovanile Nathalie; con la finzione storico-sociale di Marcinelle 1956, pubblicato da Casterman nella prestigiosa collana Écritures, ha cambiato totalmente il proprio universo di riferimento.

 

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From: Cobas Taranto slaicobasta@gmail.com

To:

Sent: Saturday, September 06, 2014 11:25 AM

Subject: ILVA TARANTO: MORTE OPERAIA, PADRONI, SINDACATO

 

Lo Slai Cobas, come ha dichiarato, sta procedendo ad un’inchiesta parallela per appurare le circostanze effettive che hanno provocato la morte in Ilva del lavoratore Angelo Iodice, sia per inchiodare le responsabilità della direzione Ilva e dell’azienda Global Service, sia per individuare le responsabilità aggiuntive delle Organizzazioni Sindacali e degli RLS presenti in azienda (che per noi sono decisive nella lotta per la sicurezza in fabbrica), sia, infine, per ribadire i punti della nostra piattaforma che, nonostante silenzi e ostracismi da parte di tutti, compreso USB e Liberi e Pensanti, è l’unica alternativa e soluzione parziale alla tutela delle condizioni di lavoro e di vita nei reparti, in generale e in particolare in questa fase:

  • una postazione ispettiva permanente all’interno dello stabilimento, che faccia da deterrente verso l’azienda, che permetta a operai e rappresentanti sindacali di denunciare direttamente e pretendere un intervento immediato e che agisca, proprio perchè all’interno della fabbrica, sotto il controllo operaio;
  • Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza in numero sufficiente per controllare effettivamente i reparti, eletti fuori dalle liste sindacali, ma dai lavoratori su scheda bianca, e revocabili, con potere di blocco degli impianti e blocco legittimo dei lavoratori;
  • un azzeramento degli accordi sindacali in questa materia che permetta di ricontrattarli, area per area, potenziando gli organici.

SULLE CIRCOSTANZE DELL’INFORTUNIO

Ci attendiamo che Procura (Sebastio) e organi ispettivi siano coerenti con l’impegno assunto, di chiarire le responsabilità in tempi brevissimi.

Dalle nostre informazioni segnaliamo, in aggiunta a quelle già indicate anche su articoli di stampa, tre problemi.

Primo. Era compatibile che ci fosse un mezzo in movimento mentre operai e il povero Iodice comunque operavano o dovevano passare sui binari? Dato che, come sembra accertato, il guidatore del mezzo non era in condizione di vedere queste altre presenze?

Secondo. Era o non in funzione il segnalatore acustico che potesse realmente segnalare l’arrivo del mezzo a chi era o transitava sui binari? E che razza di “segnalatore acustico” è, se in presenza di rumore permanente esistente nella zona, esso anche se è in funzione non si può sentire?

Terzo. Ancora una volta, come è nel reparto MOF, segnaliamo che per i mezzi che transitano sui binari serve costantemente una doppia persona, una alla guida e una al controllo, altrimenti costantemente quando questi mezzi sono in movimenti il rischio di incidenti è alto. Azienda e accordi sindacali hanno in generale escluso questa doppia presenza, e, quindi, sono responsabili degli incidenti che avvengono in questo campo; e il ripristino o la creazione di una doppia presenza (già posta ai tempi della lotta del MOF) è un’esigenza immediata per cui lottare.

Nelle circostanze di questo incidente non possono poi essere trascurati altri fattori.

Non dimentichiamo mai che esso è avvenuto mentre si stavano riparando i binari per effetto di un altro gravissimo incidente, per fortuna senza conseguenze per gli operai, avvenuto pochi giorni prima, che testimonia lo stato di generale pericolo e insicurezza che si vive nello stabilimento, che mette a rischio comunque gli operai.

Continueremo l’inchiesta e segnaleremo con un esposto alla Procura i fatti ulteriori eventualmente accertabili.

QUALI SONO STATE LE REAZIONI E QUALI LE “PROMESSE” DELL’AZIENDA IN MERITO

Come al solito, nulla di nulla; ipocrisie e condoglianze a cui di solito seguono reticenze, ostruzionismi per l’accertamento della verità e in alcuni casi anche pressioni affinché si taccia o si coprano responsabilità. Temiamo che questo avvenga anche in questo caso.

Alle prime reazioni si sono aggiunte le dichiarazioni fatte ieri dal nuovo Direttore dello Stabilimento, insediato da Gnudi, Roberto Renon, che viene dall’Enel e quindi dobbiamo pensare privo di competenze specifiche nel settore siderurgico. Tutte le nuove nomine sono scarsamente motivate per criteri, competenze e affidabilità, e pur dovendo anch’esse essere giudicate sulla base dei fatti, tuttora sembrano essere all’insegna dei “cambi di organigramma”, di nuove cordate e di interessi commerciali e finanziari, e non industriali e siderurgici, nel quadro più generale del confuso programma di vendita/svendita dell’Ilva.

Ma per restare in tema, Renon ha dichiarato che la sicurezza sul lavoro nello stabilimento sarà sempre più prioritaria, ma ha aggiunto che l’obiettivo principale è di recuperare efficienza e capacità produttiva, cose che in questa fabbrica hanno sempre significato più sfruttamento e meno sicurezza.

Poi aggiunge Renon, che sul tema della sicurezza “saremo inflessibili, anche per quanto riguarda le procedure”; intendendo però fondamentalmente i comportamenti operai, dato che Renon stesso, senza conoscere realmente né la fabbrica né le circostanze specifiche dell’incidente mortale di avantieri, già si autoassolve dichiarando “nell’incidente di giovedì gli impianti non c’entrano nulla”. Con questa premessa non possiamo assolutamente credere alle “promesse” di Renon circa il carattere prioritario della sicurezza in fabbrica.

LA QUESTIONE DECISIVA E’ LA RISPOSTA DEGLI OPERAI E DELLE ORGANIZZAZIONI SINDACALI

Detto questo, la questione decisiva anche dopo la morte di Iodice è come gli operai e le organizzazioni sindacali affrontano il problema.

E’ stato dichiarato uno sciopero di 24 ore da tutte le Organizzazioni Sindacali interne, a cui lo Slai Cobas ha immediatamente aderito, nonostante la fiducia negli attuali dirigenti sindacali interni sia pari a zero. Perchè quando si muore in fabbrica, la fabbrica si deve fermare e tutti gli operai che hanno un minimo di coscienza devono, obbligatoriamente, scioperare; altrimenti, come ha detto un operaio: “per un collega morto non avete alzato la testa”.

E c’è da dire che in generale lo sciopero, questa volta, ha avuto un’adesione migliore che in altre occasioni. Ma l’adesione sarebbe stata davvero più alta se non ci fossimo trovati di fronte alla decisione di FIM, UILM e USB di aderire alla richiesta dell’azienda di revoca dello sciopero in vari reparti.

Questa decisione è stata sbagliata. I Liberi e Pensanti hanno giustamente scritto: ”cosa non ha funzionato rispetto al passato per spingere quei sindacati a ritirare lo sciopero nei reparti convertitore e acciaieria 1, trattamento siviere 1, impianti ossigeno e gas, gestioni rottami ferrosi e scorie, reparti nei quali in generale non sono previste comandate, cioè l’obbligo per i lavoratori di restare pena la precettazione, al fine di garantire la sicurezza degli impianti”.

Giustamente si ricorda che in uno sciopero del 2005, in cui l’azienda sollevò analoghe circostanze, la magistratura, con sentenza marzo 2010, si espresse rigettando l’istanza aziendale.

L’azienda ha parlato di “rischio incolumità dei lavoratori e degli impianti stessi”, ma essa stessa aveva volutamente determinato questa situazione continuando a far colare ghisa. Quindi, in sostanza, reagendo alla morte dell’operaio con una continuità produttiva che contava sul fatto che la fabbrica non fosse fermata dallo sciopero e sul fatto che così poteva far agire il ricatto verso i lavoratori, e soprattutto l’accettazione di questo ricatto da parte delle Organizzazioni Sindacali.

Per questo non si doveva accedere alla richiesta di revoca dello sciopero e l’azienda doveva essere inchiodata alle sue doppie responsabilità.

Sulle giustificazioni dei “revocatori di sciopero”. Su FIM e UILM non abbiamo nulla da dire, da sempre accettano tutto ciò che l’azienda dice e in particolare in occasione degli scioperi con mega comandate, ecc. ecc.

Invece va denunciata la posizione e l’ipocrisia dell’USB e del suo segretario Franco Rizzo. Questi, quando non erano nelle RSU, facevano “fuoco e fiamme”, con scioperi prolungati anche oltre ragione. Oggi, invece, Rizzo parla di “senso di responsabilità”, oggi Rizzo dà credito all’azienda a prescindere: “L’Ilva ha detto in serata che lo stabilimento aveva addirittura pochi minuti di autonomia, che si sarebbe fermato, che i danni sarebbero stati incalcolabili…” (boom!!). Un difensore meglio di Rizzo l’azienda oggi non lo poteva trovare.

Rizzo aggiunge “abbiamo agito per proteggere i lavoratori”. Ma era proprio la serietà dello sciopero che serviva a proteggere i lavoratori e Rizzo dovrebbe saperlo molto meglio di noi.

Qualcuno ha pensato di cavarsela affermando, al solito su Facebook: “non siamo tornati a lavorare per i soldi, ma solo per salvaguardare gli impianti, sarebbe una grande cosa devolvere la giornata in beneficenza alla famiglia del povero Angelo Iodice”. Ma basta con questa favola della “beneficenza alla famiglia” già usata purtroppo in altre occasioni per decisioni sciagurate di boicottaggio dell’arma dello sciopero. Una cosa è la lotta, una cosa è il sostegno alla famiglia. La lotta è contro il padrone che ha ucciso quella famiglia!

Purtroppo questa situazione dimostra ancora una volta che in fabbrica non c’è il sindacato di classe e di massa, necessario a fronteggiare la questione della sicurezza, come tutta la questione Ilva in questo momento.

Le nuove RSU non hanno risolto un bel niente, come avevamo detto dal primo momento, e la posizione di non contribuire all’organizzazione sindacale di classe, attraverso lo Slai Cobas, dei Liberi e Pensanti fa restare gli operai disorganizzati, disorientati, confusi, divisi e indifesi, alimentando l’opportunismo e l’interesse personale che in questa fabbrica ha già fatto fin troppi danni.

Ma questa situazione deve cambiare e cambierà! Su questo abbiamo fiducia e insistiamo con tenacia.

 

Slai Cobas per il sindacato di classe

Ilva Taranto

cellulare: 347 53 01 704

e-mail: slaicobasta@gmail.com

 

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From: Aldo Arpe arpe_aldo@yahoo.it

To:

Sent: Sunday, September 07, 2014 6:02 AM

Subject: L’ITALIA NELLE MANI DI UN BULLO ANTI OPERAIO: E’ L’ORA DELLA LOTTA DI CLASSE CONTRO IL RENZISMO

 

da Partito Comunista dei Lavoratori

http://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=4035

 

Dopo sei mesi di Renzi parlano i fatti. “Passo dopo passo”.

Gli 80 euro sono pagati sia da coloro che li hanno ricevuti sia da lavoratori e pensionati esclusi, sotto forma di Tasi, addizionali fiscali, tagli sociali imponenti su servizi, lavoro, sanità… 32 miliardi di tagli annunciati in 3 anni!

La disoccupazione dilaga in tutta Italia (42% tra i giovani); fabbriche e aziende continuano a chiudere una dopo l’altra o a espellere migliaia di operai (Alcoa, Thyssen, Merloni, Alitalia, Lucchini, ecc.); contratti a termine senza causali e senza limiti diventano il destino di una generazione (decreto Poletti); si annuncia completa libertà di licenziamento senza giusta causa per i neo assunti (Job Act).

Milioni di lavoratori del settore pubblico restano senza contratto (da sei anni!); si mantengono i tagli imponenti alla scuola pubblica degli anni passati (9 miliardi) e si paga una parziale “assunzione” di precari con l’abolizione degli scatti di anzianità; mentre l’istruzione diventa sempre più cara per studenti e famiglie e un boccone sempre più interessante per il business d’impresa.

La sostanza? Molto semplice: milioni di lavoratori, precari, studenti, disoccupati, anziani, “poveri”, pagano di tasca propria sia i costi delle truffe elettorali di Renzi, sia i costi dell’assistenza al capitale finanziario (italiano e europeo) che Renzi assicura.

Mentre il Premier vuole mettere al riparo le proprie fortune di aspirante Bonaparte (e la continuità della rapina sociale) con una riforma istituzionale che consentirebbe a chi ha il 20% dei voti di controllare Parlamento, Governo e Presidenza della Repubblica. Un’enormità!. Un uomo solo al comando, al servizio dei capitalisti e delle proprie ambizioni!

Questa valanga va fermata. Ma è necessario per questo cambiare aria a sinistra.

I gruppi dirigenti della sinistra italiana offrono uno spettacolo scandaloso. La burocrazia dirigente della CGIL, già complice di tante svendite, subisce senza reagire l’umiliazione quotidiana e sfottente di un bullo. Landini continua a proporsi addirittura come sponda sindacale di Renzi, magari sognando di diventare un domani, con la sua benedizione, segretario della CGIL. Nichi Vendola supplica di essere richiamato alla corte del centrosinistra, offrendo a Renzi la dote di SEL e dei suoi assessori in vista delle prossime elezioni regionali.

Tutti pensano, insomma, a come sopravvivere (o fare fortuna) all’ombra del Sovrano. Nessuno pensa e agisce dalla parte dei “sudditi” contro il Sovrano, per un’alternativa di società e di potere.

Questa è invece la svolta necessaria. Non sta scritto da nessuna parte che il destino di milioni di lavoratori, studenti, precari, disoccupati, sia quello di subire in silenzio la dittatura di una piccola minoranza di industriali e di banchieri, e l’arroganza di un furbastro che amministra i loro interessi.

Né certo l’alternativa è quella dei milionari Grillo e Casaleggio, che vogliono la chiusura dei posti di lavoro in cambio di un salario di cittadinanza di 600 euro per i licenziati e una Repubblica plebiscitaria via Web sotto il proprio controllo. Un progetto reazionario.

L’alternativa vera può essere costruita solo dai lavoratori stessi: contro i capitalisti, i loro governi, i loro partiti e tutti i loro ciarlatani di complemento.

E’ possibile: unendo innanzitutto le forze degli sfruttati in una lotta vera, radicale, di massa, attorno ad una piattaforma unificante delle loro ragioni e rivendicazioni, promossa da una assemblea nazionale di delegati eletti. Una lotta che metta sul campo, sino in fondo, la forza del lavoro, superando ogni frammentazione e dispersione.

Sedici milioni di lavoratori salariati, precari, disoccupati possono rivoltare l’Italia come un calzino, esprimere un proprio governo, concentrare nelle proprie mani il potere, liberare la società dal capitalismo.

Ma c’è bisogno di un partito di avanguardia che costruisca in ogni loro lotta la coscienza di questa forza.

Questa è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori. L’unico che non ha mai tradito gli operai.

 

Partito Comunista dei Lavoratori

6 settembre 2014

 

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From: Carlo Soricelli soricarlo49@gmail.com

To:

Sent: Tuesday, September 09, 2014 7:37 PM

Subject: L’EMILIA ROMAGNA E’ LA REGIONE CON PIU’ MORTI SUI LUOGHI DI LAVORO

 

PACE (IDV EMILIA ROMAGNA): NEL 2014 +15,8% DI MORTI SUL LAVORO IN EMILIA ROMAGNA

IL TEMA SICUREZZA DIVENTI FONDAMENTALE

Nei primi otto mesi del 2014 in Italia sono morti sui luoghi di lavoro 423 lavoratori, con un tragico incremento rispetto al 2013 pari al 7,6%. L’agricoltura con il 39,8% del totale ha un picco incredibile: in questo comparto il 72,6% delle persone sono morte in un modo drammatico, schiacciati dal trattore che guidavano.

Cronaca di morti annunciate che non risparmiano l’Emilia Romagna. Nello stesso periodo di tempo, infatti, nella nostra regione sono morti 38 lavoratori (4 in provincia di Bologna, 6 a Forlì-Cesena, 6 a Ferrara, 5 a Modena, 6 a Parma, 3 a Piacenza, 5 a Ravenna, 2 a Reggio Emilia, 1 a Rimini), a cui si devono aggiungere le morti sulle strade ritenute dallo Stato morti sul lavoro a tutti gli effetti che fanno lievitare il numero delle persone decedute a 70.

L’incremento rispetto al 2013 è del 15,8% (il totale delle vittime nello scorso anno era di 45).

E’ così tutti gli anni, nonostante il Governo fosse già stato avvertito il 28 febbraio dall’Osservatorio indipendente sulle morti del lavoro di Bologna dei pericoli dell’imminente strage di agricoltori schiacciati dai trattori. Da quel giorno, infatti, sono morti in tutta Italia per il ribaltamento del mezzo 113 lavoratori, che si sommano ai dieci deceduti nei primi due mesi dell’anno. Diciassette sono le vittime in Emilia Romagna, cifra che rappresenta il 49% delle morti sul lavoro complessive.

Al Governo abbiamo chiesto di fare una campagna informativa sulla pericolosità del mezzo e di proporre una legge sulla messa in sicurezza dei trattori che così facilmente uccidono. Non siamo stati ascoltati, ma non possiamo assolutamente abbassare la guardia: rinnoviamo alle istituzioni l’invito perché intervengano per porre fine a una situazione non più sostenibile.

L’Italia dei Valori si propone di mettere la sicurezza sul lavoro come tema fondamentale della sua campagna elettorale in vista delle Regionali del prossimo novembre.

Basta ignorare queste tragedie, basta con la precarietà del lavoro (che aumenta in maniera esponenziale gli infortuni anche mortali) e con l’opera di emarginazione dei sindacati: calpestare i diritti elementari dei lavoratori e la sicurezza sul lavoro può solo nuocere non solo ai lavoratori stessi ma a tutto il sistema produttivo.

 

Caterina Pace

Commissario regionale Italia dei Valori Emilia Romagna

 

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From: Alteralias alias.alter@gmail.com

To:

Sent: Tuesday, September 09, 2014 10:40 PM

Subject: MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA ILVA PER MORTI DI AMIANTO

 

Secondo alcuni il giudice Orazio dice l’ovvio, secondo me l’analisi che sottende le motivazioni è molto lucida e per niente scontata.

Bella anche la lettera dei pediatri.

Saluti

Amanda

Livorno

 

Da: Il Fatto Quotidiano

http://www.ilfattoquotidiano.it

ILVA TARANTO, CONDANNA PER L’AMIANTO: “GLI OPERAI MORTI POTEVANO ESSERE SALVATI”

Gli operai dell’Ilva morti per mesotelioma pleurico a causa dell’amianto presente nella fabbrica potevano essere salvati se solo l’azienda, a conoscenza della problematica, avesse agito tempestivamente.

E’ quanto scrive il giudice Simone Orazio nelle motivazioni della sentenza con la quale il 23 maggio scorso ha condannato 27 ex dirigenti della fabbrica (tra i quali Fabio Riva ex vice presidente del gruppo condannato a 6 anni di carcere) accusati di omicidio colposo e disastro ambientale.

Nelle 268 pagine, infatti, il magistrato scrive che se i vertici dello stabilimento avessero sottoposto a visite mediche adeguate i lavoratori, queste avrebbero consentito di “diagnosticare una patologia (ad esempio placche pleuriche) che poteva essere un campanello d’allarme per il mesotelioma e che certamente avrebbe obbligato il datore di lavoro a non esporre più il lavoratore, affetto da tale problematica di salute, alle fibre di asbesto” e quindi a “valutare la incompatibilità del lavoratore rispetto alle mansioni sino ad allora espletate e quindi anche rispetto all’esposizione ad amianto, motivo per cui in questi casi l’accertamento sanitario avrebbe permesso di adibire il dipendente ad altre mansioni, sottraendolo al pericolo di morte”.

Ma la politica aziendale è sempre stata impostata al raggiungimento del massimo profitto. Anche a costo della salute degli operai. Lo scrive senza mezzi termini il magistrato spiegando che “gli interventi seri in materia di amianto nello stabilimento di Taranto sono stati sempre volutamente evitati” proprio perché avrebbero determinate un blocco e una ripartenza dell’attività produttiva oltre che “uno stravolgimento degli impianti e l’investimento di notevolissime somme di denaro”. Ma per salvare la salute dei dipendenti, i vertici dello stabilimento (pubblico fino al 1995 e poi venduto ai Riva) avrebbero potuto almeno fornire un’adeguata attrezzatura e invece le testimonianze in aula hanno chiarito che agli operai venivano date in dotazione solo mascherine respiratorie “usa e getta” che gli esperti hanno definito “del tutto inadeguate”.

Insomma, una “situazione di consapevole e lucida omissione” che secondo il tribunale “si è perpetrata per decenni, essendo sotto gli occhi di tutti nel senso che l’inerzia è stata maturata e voluta sia da coloro che avevano ruoli operativi e che pertanto erano a conoscenza delle inaccettabili condizioni in cui costringevano a lavorare i dipendenti sia da parte di coloro che avevano responsabilità manageriali, gestionali e di controllo finanziario data l’assenza dl alcuno stanziamento al riguardo”. Una scelta scellerata che, però, non ha colpito solo i lavoratori della fabbrica, ma si è trasformato nel disastro ambientale che ha colpito “tutta la popolazione di Taranto e dei comuni limitrofi, complessivamente pari a quasi trecentomila abitanti”.

Un disastro che è il frutto di “una logica di organizzazione dei fattori produttivi” e di “una pianificazione delle linee di politica del lavoro e della salute del lavoratori” determinate dalla “scelta compiuta dai vertici con la colpevole complicità del loro collaboratori”, ma certamente avvenuto anche grazie “all’inerzia degli altri pubblici poteri che avrebbero potuto e quindi dovuto far sentire la propria voce”.

Eppure anche oggi l’unica voce che continua ad alzarsi in difesa della salute è quella dei cittadini. Nelle scorse ore, infatti, i pediatri di Taranto hanno scritto per la seconda volta al presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi chiedendo un incontro.

Una prima lettera era stata inviata ad agosto, ma da Palazzo Chigi non era giunta alcuna risposta. Ora i medici ci riprovano: “sapendo della sua venuta in Puglia per l’evento delle Fiera del Levante ci permettiamo di reiterare la richiesta. La situazione ambientale e sanitaria tarantina (scrivono i pediatri) è grave per come da sempre riportano i dati sanitari cui da ultimo si è aggiunto l’aggiornamento dello studio Sentieri con i suoi terribili report sulla mortalità infantile. L’allarme sociale è altissimo. Noi pediatri, da sempre al fianco delle famiglie e dei bambini pensiamo di potere dare un utile contributo ai decisori politici, sempre che lo vogliano”.

 

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From: Lavoratori Autoconvocati assemblealavoratori@libero.it

To:

Sent: Tuesday, September 09, 2014 11:04 PM

Subject: CAMPAGNA INTERNAZIONALE A SOSTEGNO DEI LAVORATORI TURCHI DELLA FABBRICA TESSILE KAZOVA

 

La Kazova è una fabbrica tessile in Turchia sita vicino a Istanbul.

La vicenda di questa manifattura tessile si colloca all’interno della crisi generale di sovrapproduzione del sistema capitalistico, contesto in cui, per la Kazova, la concorrenza dei prodotti provenienti dall’Asia ha giocato un ruolo determinante, in particolare nel cosiddetto miracolo economico turco degli ultimi dieci anni. Il fenomeno riguarda molte manifatture, anche in altri Paesi, soprattutto europei.

La Turchia ha sperimentato, e sta ancora sperimentando, in particolar modo negli ultimi dieci anni, la via capitalista per vedere la luce in fondo al tunnel di una crisi i cui responsabili sono coloro che ne trarranno i maggiori vantaggi. Ciò ha comportato una compressione costante del salario e una produttività ottenuta negando sempre più il rispetto minimo per i lavoratori. Ritmi infernali con una elevatissima percentuale di incidenti sul lavoro, molto spesso mortali. La tragedia della miniera di Soma è solo l’ultimo eclatante esempio data la sua enormità. Spesso si registra la morte sul lavoro di minorenni di 13 e 14 anni.

Un restringimento sostanziale dei livelli sindacali ha fatto da apripista ad una politica marcatamente antioperaia e filo padronale, per poter sfruttare al meglio e attirare capitali stranieri in un paese che da tempo chiede di entrare nell’Unione Europea.

La Turchia ha una lunga tradizione di soppressione e di restrizione dei diritti dei lavoratori, già diffusa ai tempi della dittatura militare degli anni ‘80 ed accentuata con l’attuale AKP (Giustizia e Sviluppo) del governo Erdogan dal 2002.

La Turchia è un esempio emblematico di come il fascismo sia una faccia del capitalismo: i diritti di organizzazione e di sciopero sono stati pesantemente limitati, e tutti i diritti dei lavoratori vengono violati su larga scala in condizioni di lavoro insicure e con la totale impunità per i proprietari di società che realizzano profitti, mentre i lavoratori stanno sempre più impoverendosi e morendo.

Oggi in Turchia registriamo la settimana media lavorativa più alta in Europa (53 ore), il tasso più basso di assenze per malattia (4,6 nel 2013), un salario netto di poco superiore ai 300 euro mensili, e contestualmente il primo posto in Europa per morti sul lavoro (6-7 morti al giorno). Questo è il miracolo economico turco degli ultimi dieci anni.

L’attacco padronale alla Kazova inizia a gennaio del 2013, quando i padroni della fabbrica tessile, i fratelli Somuncu, fanno recapitare dai loro avvocati ai 94 lavoratori la lettera di licenziamento. Lettera arrivata dopo quattro mesi in cui i lavoratori non percepivano né lo stipendio mensile né gli straordinari. La motivazione del licenziamento: i lavoratori erano rimasti assenti dalla fabbrica per tre giorni senza giustificazione. Durante la notte stessa, ad opera dei proprietari, dalla fabbrica spariscono 100.000 maglioni e 40 tonnellate di filati. Le macchine per la produzione, impossibili da spostare così in fretta, vengono messe fuori uso dal padrone e dai suoi sgherri.

Alcuni di loro, all’inizio 12, capendo che la legge non avrebbe mai salvaguardato la loro situazione, decidono di mettere in atto l’unico comportamento che un lavoratore in quelle condizioni può praticare. Resistere. Supportati dal Fronte del Popolo (HALK Cephesi), il 28 aprile decidono di occupare la fabbrica e impiantano una tenda (che diventerà il simbolo della loro resistenza) davanti alla fabbrica. Nelle settimane successive verranno attaccati e aggrediti dai fascisti al soldo dei padroni, e dalla polizia turca.

Per prima cosa i lavoratori cercano di vendere le macchine rimaste in fabbrica, in modo da compensare la razzia subita da parte dei padroni, ma vengono essi stessi accusati di furto e attaccati dalla polizia: sono quattro gli arrestati. Hanno capito e soprattutto sperimentato che tutto era contro di loro, ma che avevano la solidarietà e la vicinanza di altri lavoratori di fabbriche vicine, che nel frattempo si stava manifestando nei loro confronti. Da sottolineare lo scambio culturale di lotta e di solidarietà, ma soprattutto di internità con il movimento di Gezi, al quale i lavoratori sottolineano di essersi ispirati per proseguire la lotta, ricavandone una enorme dose di coraggio e di determinazione.

Decidono quindi di riprendere la produzione con le poche cose che ancora si trovavano in fabbrica. Il primo lotto di maglie di loro fabbricazione viene inviato nelle carceri, da dove erano partite le lettere di solidarietà nei loro confronti. I lotti successivi sono venduti al Caffè del Kolektif a Taksim e ai numerosi forum Gezi, sorti in tutta la città dopo i noti fatti di Gezi Park.

I soldi ricavati da queste vendite vengono impiegati per riparare le macchine sabotate dal padrone. Contemporaneamente, per rendere la loro lotta sempre più visibile, organizzano svariati forum, e riescono nel mese di settembre a proporre persino una sfilata dal titolo “La moda di resistenza”, a cui partecipano personaggi pubblici come attori, scrittori, accademici, gruppi musicali. I lavoratori della Kazova hanno compreso fin da subito l’importanza dell’estensione della lotta e con lo slogan “Maglioni alla portata di tutti” hanno cercato immediatamente contatti anche fuori della Turchia stringendo rapporti di solidarietà, ma anche scambiando prodotti con cooperative autogestite, in particolare in Grecia con la Vio Me e la cooperativa basca Mondragon.

Di recente, i lavoratori della Kazova hanno vinto una piccola battaglia in tribunale, in quanto a titolo di risarcimento per i loro salari persi sono stati loro restituiti i macchinari. Poca cosa, ma che comunque hanno subito immesso nel loro ciclo produttivo. Parità salariale per tutti e sei ore di lavoro giornaliero.

Nella centrale zona Sisli di Istanbul, i lavoratori della Kazova hanno aperto un piccolo negozio con valenza di centro culturale, sulla cui facciata risalta una scritta: Diren Kazova! (Resisti Kazova!). Il pavimento è fatto di sanpietrini, alcuni colorati di bianco a formare alcune scritte sul pavimento: “1° Maggio”, “Resisti Kazova”, “La rivoluzione è viva”. Una pavimentazione da strada che dà il senso di resistenza, come le magliette, i maglioni messi negli scaffali, un senso di sfida, un senso di equità, un senso di lotta.

Subito salta agli occhi il diverso atteggiamento che ha animato questi lavoratori, questa esperienza, se rapportato ad altre fabbriche in Turchia ma anche in altri paesi, soprattutto in paesi a capitalismo avanzato, Italia in primis. Lo slogan dei lavoratori Kazova “Occupare, Resistere, Produrre” (mutuato dall’esperienza argentina) non è sinonimo di chiedere riforme del lavoro, patteggiare ristrutturazioni, scrivere lettere angosciate a papi, sindaci, ministri, governatori regionali, elemosinare cassa integrazione.

Occupare per Resistere, Resistere per Produrre, non per realizzare profitti che, come spiegano i lavoratori, non è il loro obiettivo. Ottenere condizioni di lavoro e paga migliori senza chiederle ma prendendosele, produrre scambio di idee e contatti di solidarietà rivoluzionaria, produrre lotte per il controllo dei mezzi di produzione. Un altro mondo, un’altra concezione del mondo, un’altra comprensione della realtà, soprattutto in chiave prospettica, da parte di lavoratori che hanno pienamente capito il loro ruolo dentro il sistema capitalista.

In un momento come quello attuale confrontarsi con simili esperienze, da noi impensabili, nemmeno in momenti in cui la classe lavoratrice aveva un potere contrattuale enormemente più alto, non solo è importante come bagaglio politico, ma soprattutto mette sul tavolo della discussione una delle prassi che da sempre ha contraddistinto l’agire, il rivendicare, il patteggiare dei lavoratori. Specialmente in una prospettiva futura, sapendo quali saranno le esigenze dei capitalisti e quali metodi useranno. Niente di nuovo, ma con una drasticità e durezza che aggiungeranno sofferenza, espulsione dal ciclo produttivo, immiserimento per milioni di lavoratori e proletari.

I lavoratori della Kazova stanno dimostrando che di fronte alla chiusura della propria fabbrica non esiste solo la strada della rassegnazione o del ritorno a casa ma esiste quello della lotta.

Per questo la loro presenza in Italia sarà un interessante momento di confronto anche con chi ha avviato pratiche di occupazione, autogestione e recupero del proprio luogo di lavoro di fronte alla chiusura imposta dai padroni. Consapevoli che il movimento dei lavoratori in Italia vive un profondo arretramento da almeno 30 anni, questo non toglie che l’incontro con i lavoratori turchi serva innanzitutto a riconoscersi come parte di un’unica classe: la classe internazionale dei lavoratori.

I lavoratori della Kazova, inoltre, continuano a spendersi anche sul piano della solidarietà. Solidarietà interna verso i prigionieri politici ad esempio, ma verso tutti i lavoratori che attraversano periodi duri. Sono stati presenti a Soma, a sostegno dei lavoratori e delle famiglie coinvolte nel massacro della miniera. Sono stati vicini al popolo turco nel terribile terremoto che ha scosso la Turchia lo scorso anno. Sul piano internazionale, basti ricordare che hanno confezionato le maglie per le nazionali di calcio di Cuba e di quella Basca-Navarra inviando un chiaro messaggio di sostegno al popolo cubano sotto embargo da oltre 50 anni e al popolo basco che lotta per la sua autodeterminazione.

Hanno con il loro esempio contagiato altri lavoratori che hanno messo in pratica le stesse misure. Fino ad estendere il loro piano d’azione all’occupazione di case per il popolo.

Non sappiamo (e non è questo il problema principale) se la via imboccata dai lavoratori della Kazova sia LA via. Di sicuro sappiamo che la maggior parte delle strade intraprese negli scenari con cui abbiamo avuto a che fare o di cui abbiamo seguito le vicende, seppur dignitose e degne di rispetto, non hanno affrontato il problema dello sviluppo capitalista e non hanno affondato, neppur minimamente, il “coltello in questa piaga” né tantomeno nel meccanismo che genera la crisi.

L’esperienza di questi lavoratori mette al centro il problema centrale, che sta alla base dello sfruttamento: Produrre sì, ma per chi e per che cosa?

 

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From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com

To:

Sent: Thursday, September 11, 2014 3:30 PM

Subject: LA FABBRICA DELLA DISPERAZIONE

 

Da: Controinformazione

http://www.carmillaonline.com/categorie/controinformazione

11 settembre 2014

di Alexik

 

“Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.

Chissà a che Cristo si riferiva Sergio Marchionne alla vigilia dell’accordo sullo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Forse a quei poveri Cristi dei suoi operai, a cui presto avrebbe inflitto la metrica ERGO/UAS, i 18 turni, il “salto della mensa”… o forse al contratto collettivo nazionale, crocefisso sui cancelli del ”Giambattista Vico”.

Chiunque fosse l’agnello sacrificale, è con questa boutade da novello evangelista che nel giugno 2010 l’Amministratore Delegato di Fiat ratifica la sua assoluta indifferenza nei confronti della intera storia delle relazioni industriali in Italia. Una storia di cui l’accordo separato rappresenta un tassello di una pesante svolta involutiva, di un cambio di fase anche rispetto alle pessime logiche concertative che avevano contrassegnato, a fasi alterne, il connubio fra sindacati, governo e padroni nel ventennio precedente.

Nel 2010, infatti, non c’è più nulla da concertare: l’azienda ordina e il sindacato obbedisce, chi dissente è fuori. E’ questo, in sintesi, il senso della così detta “clausola di responsabilità”, un elemento inedito nella storia della contrattazione, introdotto per la prima volta dall’accordo separato di Pomigliano. Ovviamente la “responsabilità” in questione non è riferita alla Fiat, che non è tenuta a rispettare un bel nulla… e non potrebbe essere altrimenti visto che, in cambio della flessibilità totale, la Fiat agli operai del ”Giambattista Vico” nulla concede, se non la promessa di non chiudere baracca.

Si tratta invece di una clausola sanzionatoria per le organizzazioni sindacali (o anche singoli delegati) che dovessero “rendere inesigibili le condizioni concordate e i conseguenti diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. E’ un sostanziale divieto di lotta a cui FIM, UIL e FISMIC acconsentono, impegnandosi ad astenersi da ogni forma di contestazione del nuovo regime di fabbrica. Ma non basta.

La Fiat non si accontenta infatti di un sindacato imbelle e rinunciatario. Esso deve anche ergersi attivamente a guardiano e censore degli operai non allineati, contrastando l’emergere di ”comportamenti individuali e/o collettivi dei lavoratori idonei a violare le clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. Qualora il sindacato non si dimostrasse efficace nello svolgimento dell’infame compito potrebbe subire tagli nei permessi e nei contributi sindacali. Come rabbonire gli operai riottosi è poi un problema suo: dissuasione bonaria? Delazione ai capi?

Di fatto, la complicità da parte di FIM, UILM e FISMIC, in genere ottenuta dalla Fiat per puro amore, con l’accordo di Pomigliano diventa obbligatoria, una funzione formalizzata la cui contropartita consiste nel mantenimento dell’agibilità sindacale come graziosa concessione dall’alto.

Ma se il controllo sindacale non dovesse bastare? Se la gravosità dei nuovi carichi di lavoro, gli orari interminabili, o l’estendersi dell’arbitrio dei capi dovessero risultare talmente insopportabili da generare spontaneamente una reazione operaia? Anche a questa eventualità l’accordo separato pone rimedio, con l’integrazione di tutte le sue clausole all’interno del contratto di lavoro individuale di ogni dipendente. Di conseguenza qualsiasi comportamento dei singoli operai anche vagamente ostruzionistico nei confronti, per esempio di uno spostamento arbitrario di mansione o dell’ennesimo salto della mensa, diventa motivo di sanzione disciplinare fino al licenziamento.

In base all’accordo, gli operai di Pomigliano non solo dovranno lavorare senza respiro, senza riposo, socialità e nutrimento, ma anche (e soprattutto) senza difesa, visto che ogni forma di lotta potrà essere considerata “ostruzionistica”. Resteranno inermi di fronte al potere industriale: anche l’esercizio individuale e collettivo del diritto di sciopero (tutelato formalmente dalla Costituzione Repubblicana) diviene di fatto inesigibile.

Il diritto del lavoro viene leso così fin nella sua suprema fonte. Ma, come è noto, anche il diritto e la sua interpretazione sono il prodotto storico di rapporti di forza.

E la forza non manca a una Fiat ormai affrancata dalla dimensione nazionale, capace di distribuire globalmente le produzioni, di concederle o negarle ai vari stabilimenti sparsi per il pianeta in maniera premiale o punitiva, ricattandoli tutti. Una forza che in Italia si ritrova inoltre spalleggiata da numerosi alleati, anche fra quelle organizzazioni politiche e sindacali che, in pura teoria, avrebbero dovuto porle un freno. Del resto, ogni passaggio da un “prima” a un “dopo” Cristo necessita di Giuda.

Sul piano politico il plauso a Marchionne è bipartisan. Oltre che sullo scontato appoggio di Sacconi (in quegli anni alla testa del Ministero del lavoro) e dell’intero governo Berlusconi quater, l’Amministratore Delegato può contare su una nutrita tifoseria all’interno del PD, a partire dai sabaudi Fassino (“sta passando l’ ultimo treno per salvare Pomigliano e il sindacato deve rendersene conto… nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità”) e Chiamparino (“non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta”). Seguono Franceschini, che invita il partito ad “accogliere la sfida del cambiamento che ha lanciato Marchionne” e Pietro Ichino (allora senatore PD) che plaude alla nuova Fiat di Pomigliano paragonandola in meglio alla Camorra. Non c’è che dire, un bel confronto fra imprese leader dell’imprenditoria del sud!

Sul piano sindacale, l’accordo di Pomigliano è preceduto da mesi e mesi di un intenso lavorio di CISL e UIL che ne costruiscono nel dettaglio le premesse giuridiche. Se osservate complessivamente, le scelte di queste organizzazioni (operate su più tavoli e con diversi interlocutori) sembrano seguire un progetto coerente, lucido e lineare, finalizzato alla distruzione del CCNL ed alla ratifica del monopolio della rappresentanza da parte dei “sindacati complici”.

Va in questo senso l’accordo dell’aprile 2009 con Confindustria e Governo sulla possibilità di derogare ai CCNL tramite i contratti aziendali, così come la successiva disdetta da parte di FIM e UILM del contratto collettivo dei metalmeccanici e l’apertura con Federmeccanica di una nuova trattativa separata, finalizzata ad emendarlo in peggio.

Per tutto il 2009 CISL, UIL e le loro federazioni del settore metalmeccanico preparano la strada su cui Marchionne potrà correre senza inciampare nei paletti del contratto collettivo nazionale. Ma non solo: la sequela degli accordi separati sembra anticipare quella che sarà, da lì a poco, l’espulsione del sindacato di Landini dalla rappresentanza del ”Giambattista Vico” e dell’intero Gruppo Fiat.

A Pomigliano la FIOM nega la firma, dimostrando che la sottomissione sindacale non è unanime, e questo a Marchionne non può bastare: il suo progetto per il ”Giambattista Vico” richiede infatti l’obbedienza assoluta. Gli occorre dunque una delegittimazione dei dissenzienti che vada a colpirli nella loro qualità di rappresentanti dei lavoratori, meglio se impartita direttamente dal popolo dei rappresentati. A questo fine nuovamente si prestano Fim e Uilm, con l’indizione di un referendum sull’accordo che, nelle loro intenzioni, dovrebbe mettere nell’angolo il loro principale competitor sul mercato della rappresentanza e validare la loro politica sindacale con un’investitura dal basso.

Il referendum viene fissato per il 22/23 giugno 2010, pochi giorni dopo la firma dell’accordo, per rendere più difficile qualsiasi reazione. Il quesito rivolto agli operai suona più o meno così: preferite tornarvene a casa per la chiusura della fabbrica o lavorare come schiavi? Uno stupro dello strumento democratico.

FIM e UILM confidano sul fatto che al ”Giambattista Vico”, piuttosto che la fame, sceglieranno le catene, e in effetti si prevede un plebiscito a favore dell’accordo, anche grazie al pessimo clima che si è creato tutt’intorno. Oltre ai già citati amici di Marchionne di governo e opposizione, preme per il sì quasi tutta l’informazione, le istituzioni di Pomigliano, la stessa CGIL della Campania invita esplicitamente ad andare a votare a favore, mentre dalla segreteria CGIL Epifani non sconfessa il referendum perché “è importante che i lavoratori siano coinvolti”.

Anche la FIOM, in realtà, teme di venir travolta dal risultato. Per questo non si espone fino in fondo per il no, chiamandosi fuori dalla battaglia referendaria sulla base dell’illegittimità della consultazione. Una posizione molto politically correct, perché nemmeno il consenso dei lavoratori può mettere in dubbio diritti indisponibili, costituzionalmente tutelati, quali il diritto di sciopero o quello alla dignità e alla salute. Ma una posizione decisamente poco pratica, perché di fatto lascia campo libero all’azienda e ai suoi accoliti.

Per fortuna non tutti si ritirano sull’Aventino. Nei giorni che precedono il referendum lo SLAI COBAS e l’intero sindacalismo di base si giocano il tutto per tutto, assieme a delegati e iscritti FIOM del ”Giambattista Vico”, che sanno bene, se vince il si, quale futuro li attende.

Il futuro così descritto da Anna, un’operaia del reparto confino di Nola, in una lettera al figlio piccolo: “Cucciolo mio, le sole cose che raddoppieranno saranno gli utili nei conti FIAT e il carico di lavoro di noi poveri operai… e per me raddoppieranno le possibilità di ammalarmi per colpa di turni massacranti e postazioni di lavoro sempre più pesanti… Sarò assente da casa per tutti i giorni della settimana e in quelle poche ore che sarò presente sarò così stanca e così stressata che non avrò nemmeno la forza di abbracciarti”.

Dietro i cancelli lo SLAI COBAS organizza il controllo delle operazioni di voto, fuori accorrono al presidio anche l’USB, i COBAS, la CUB, le delegazioni provenienti da Mirafiori, Termoli, Cassino, dal movimento, dai circoli del PRC e perfino dal popolo viola. Tutti consapevoli che l’impatto dell’accordo non rimarrà confinato dietro le porte del ”Giambattista Vico”, ma si ripercuoterà su tutto il gruppo Fiat, fino a configurarsi come un attacco alla classe nel suo insieme. La posta in gioco è alta. Per Pomigliano comincia il giorno più lungo.

(Continua)

 

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From: Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com

To:

Sent: Friday, September 12, 2014 9:36 AM

Subject: UN ORSO UCCISO MERITA PIÙ ATTENZIONE CHE LA MORTE DI CENTINAIA DI LAVORATORI CHE MUOIONO PER INFORTUNI SUL LAVORO

 

A La Repubblica,

Egregio signor Serra,

trovo commovente quello che ha scritto per l’orsa uccisa su Repubblica di oggi, ma forse se un po’ di commozione lei e tutti quei politici ridicoli che hanno fatto una cagnara tremenda per questo fatto di cronaca, la metteste per i lavoratori che muoiono numerosissimi, e come non mai da quando il suo “amato” Renzi è al governo del paese, forse sarebbe meglio.

Il giorno 28 febbraio come curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro ho mandato a Renzi, Poletti e Martina una mail spiegando loro che in base ai dati e alle statistiche raccolte nel corso degli anni, entro pochi giorni sarebbe ricominciata la strage di agricoltori schiacciati dal trattore.

Ma siccome voi casta (ne fa parte anche lei a pieno titolo) di chi lavora poco interessa, non è stato fatto niente (anche lei riceve di continuo le mie mail su queste tragedie).

Per questi agricoltori schiacciati dal trattore, no selfie, no cinguettii, no un secchio d’acqua in testa o un gelato mangiato: bastava fare una campagna informativa sulla pericolosità del mezzo e non tenere impegnato il parlamento per mesi, non per puttanate come un’assurda modifica del Senato, ma in cose serie quali incentivare la protezione delle cabine.

Da quel giorno di agricoltori schiacciati dal trattore ne sono morti 114 e 124 dall’inizio dell’anno.

Forse se recuperate un po’ di umanità e vi ricominciaste ad occupare di cosa serie sarebbe meglio. E questo riguarda politici, giornalisti, industriali, sindacalisti, dirigenti dello Stato ecc.

E preciso che io con le mie opere di pittura e scultura mi occupavo di ecologia quando lei si divertiva a Bologna con Cuore.

Quindi grande dispiacere per l’orsa uccisa, ma credo che anche i lavoratori che muoiono sul lavoro meritino un po’ d’attenzione.

Per piacere, anzi la prego, si occupi finalmente della vita di chi lavora.

 

Carlo Soricelli

Curatore dell’osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro

 

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From: Cobas Pisa confcobaspisa@alice.it

To:

Sent: Friday, September 12, 2014 8:31 PM

Subject: INCIDENTE MORTALE SUL LAVORO A MONTACCHIELLO (PI)

COMUNICATO STAMPA

L’aumento dell’età pensionabile, l’aumento dei ritmi del lavoro, gli appalti al ribasso e la crisi economica e sociale sono le cause delle morti sul lavoro.

Nonostante la riduzione delle ore lavorate e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, infortuni e morti non diminuiscono e il nostro paese è tra quelli dove il problema assume connotati e dimensioni sempre più preoccupanti.

La morte di un operaio schiacciato da un carrello elevatore non ha niente di accidentale, a morire è il titolare di una piccola azienda, a dimostrare che la condizione in cui operano anche le piccole imprese è all’insegna del rischio e di un pericolo crescente.

A morire sono non solo i giovani con meno esperienza, ma operai da 40 anni in produzione che con altre leggi previdenziali sarebbero in pensione perchè ci sono lavori usuranti che non si addicono a chi ha più di 60 anni.

Chiediamo sia fatta piena luce su quanto accaduto e constatiamo che la provincia di Pisa presenta un numero di infortuni, di malattie professionali in continuo aumento.

Non bastano allora gli adempimenti formali in materia di salute e sicurezza, bisogna fare di più perchè infortuni, malattie e morti non siano notizie che accompagnano la nostra quotidianità.

 

Sportello sicurezza sul lavoro

Confederazione Cobas Pisa

 

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From: Michele Michelino michele.mi@inwind.it

To:

Sent: Friday, September 12, 2014 11:25 PM

Subject: IL PREMIO CAMPIELLO AL ROMANZO “LA FABBRICA DEL PANICO” DI STEFANO VALENTI

 

Sabato 13 settembre c’è stata la serata finale del Premio Campiello 2014 (Il “Campiello” è un premio letterario, istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto, che viene assegnato a opere di narrativa italiana), con la cerimonia di premiazione del libro vincitore.

La cerimonia, com’è tradizione, si è tenuta al Gran Teatro la Fenice di Venezia sabato 13 settembre ed è stata trasmessa da La7 in differita, quattro giorni dopo, cioè il 17 settembre, alle ore 23.

Il riconoscimento Premio Campiello Opera Prima, attribuito dalla Giuria dei Letterati nel 2014 va al romanzo “La fabbrica del panico” di Stefano Valenti, pubblicato da Feltrinelli che è stato premiato nel corso della cerimonia di premiazione del Premio Campiello letteratura con la seguente motivazione:

“Il romanzo racconta una storia familiare, che diventa corale di fronte alla malattia e alla morte per amianto. A narrarla, muovendosi per lasse di ricordi, è il figlio quarantenne che sente la necessità e il dovere di stringere un rapporto più ravvicinato col padre, sceso a Milano dalla Valtellina per morire in fabbrica.

Un rapporto che ricade sul figlio, il quale risulta sempre più gradualmente ferito dall’ansia di conoscere la verità, arrivando per questa via a ricostruire, non solo nel padre, ma anche nei suoi compagni, il dolore fisico e morale della fabbrica. Il tutto raccontato con uno stile asciutto e tagliente, ma di forte impatto emotivo, che procede lungo il filo di una dolorosa elegia”.

Con il premio a “La fabbrica del panico” di Stefano Valenti, romanzo che racconta la storia dei nostri compagni, del nostro Comitato con le sue lotte e le sofferenze, la Confindustria Veneto cerca di salvare la sua coscienza sporca e le mani grondanti di sangue operaio, ma non ci riesce.

In occasione della premiazione abbiamo inviato le nostre felicitazioni a Stefano Valenti con un breve commento che riportiamo a seguire.

Ciao a tutti.

 

Sesto San Giovanni

12 settembre 2014

Michele Michelino

Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio

c/o Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”

via Magenta 88

20099 Sesto S. Giovanni (MI)

telefono e fax: 02 26 22 40 99

e-mail: cip.mi@tiscalinet.it e cip.mi@inwind.it

web: http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com

 

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Caro Stefano, ti inviamo queste quattro righe di commento al Premio Campiello e le nostre felicitazioni.

Fatica, sudore, sfruttamento, rischi per la salute e la vita ogni giorno, questo il prezzo pagato dagli operai in cambio di un salario miserabile.

Paura, panico, malattia, morte, rabbia, auto organizzazione senza delegare ad altri i propri diritti e interessi.

Lotta, gioia, rapporti umani solidali e una grande sete di giustizia per i nostri compagni vittime dell’amianto, sacrificati sull’altare del profitto da imprenditori senza scrupoli che hanno mandato coscientemente a morte centinaia di migliaia di operai.

Una società che mette il profitto prima degli esseri umani, che considera normale che più di mille lavoratori ogni anno muoiano per infortuni sul lavoro e che altre migliaia siano uccise dalle malattie professionali, continuando a inquinare gravemente l’ambiente e la natura è una società barbara senza futuro.

Una volta tanto una storia operaia vera, quella dei lavoratori della Breda Fucine di Sesto San Giovanni e del nostro comitato contro l’amianto, che tu hai raccontato così bene, viene premiata.

Il Premio Campiello assegnato al tuo romanzo “La fabbrica del panico”, è un riconoscimento anche per noi e per tutti coloro che continuano a lottare senza arrendersi per i propri diritti e per la giustizia sociale.

Ciao, un abbraccio da tutti noi.

Per il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio

Il presidente

Michele Michelino (il Cesare del tuo romanzo)

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