SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.179 DEL 08/10/14

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.179 DEL 08/10/14

 

INDICE

  • L’Osservatorio morti sul lavoro di Bologna chiude per indifferenza
  • Veneto e morte: storia transnazionale di una filiera locale
  • Diritto militare e sicurezza sul lavoro
  • La non responsabilità del datore di lavoro per infortunio occorso al lavoratore
  • La valutazione dei rischi e i compiti indelegabili del datore di lavoro

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

sp-mail@libero.it

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L’OSSERVATORIO MORTI SUL LAVORO DI BOLOGNA CHIUDE PER INDIFFERENZA

 

Da Rassegna.it

http://www.rassegna.it

 

Carlo Soricelli, fondatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro: “Chiudo per indifferenza, impossibile avere una voce libera in Italia. Senza articolo 18 ci sarà meno sindacato e più incidenti sul lavoro”

 

“Ma sì, ma certo, chiudo l’Osservatorio anche per il dibattito surreale, assurdo, sull’articolo 18. Sa cosa ho constatato in questi anni? Che i caduti sul lavoro sono sempre meno assicurati dell’INAIL, e sempre più partite IVA e precari. E questi cosa fanno? Vogliono abolire l’unica norma che ha garantito un po’ di sicurezza sul lavoro, quando è dimostrato che laddove c’è un sindacato le morti sul lavoro sono quasi inesistenti”.

 

E’ un fiume in piena Carlo Soricelli, fondatore 6 anni fa dell’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro. Non nasconde la rabbia, sotto un ricco e scoppiettante accento bolognese.

 

Emigrato nel ‘54 con la famiglia da San Giorgio del Sannio a Bologna, trentanove anni spesi in fabbrica, ultimo incarico responsabile controllo di qualità in una multinazionale con sede a Cabriano. Da metalmeccanico in pensione, avrebbe potuto dedicarsi placidamente alla grande passione per la pittura e la scultura, arti praticate con qualche successo: settanta mostre all’attivo in tutta Italia, esposizioni con nomi del calibro di Cesare Zavattini e Antonio Ligabue.

 

E invece arriva la tragedia della ThyssenKrupp che si porta via, con l’olio bollente e il fuoco, 7 operai e la vita di Soricelli improvvisamente cambia. Era il 7 dicembre del 2007, e quell’incidente apparve, praticamente da subito, come la conseguenza fatale delle omissioni sulla sicurezza della dirigenza ThyssenKrupp. Morti bruciati per risparmiare.

“Dopo quel fatto” – ricorda – “ero sconvolto. Cercavo notizie su internet, e mi accorsi che quelle più recenti avevano 6 mesi. Ma come è possibile, con i mezzi tecnologici che ci sono oggi a disposizione? Mi dissi che dovevo fare qualcosa. Dopo qualche giorno ero già al lavoro”.

 

Il 1° gennaio 2008, apre l’Osservatorio. “All’inizio ero da solo, e dovevo inventarmi un metodo di rilevamento affidabile. Sa quando mi accorsi che le cose nel nostro Paese non quadravano? Quando dopo un anno, i miei dati e quelli dell’INAIL divergevano. Loro ne avevano monitorati tantissimi in meno. Eppure, li avevo tutti documentati, con tanto di nomi e cognomi. Erano persone in carne e ossa che non rientravano nelle statistiche ufficiali”.

 

Soricelli indaga e alla fine si accorge del trucco contabile. Scopre che intere categorie, agenti di commercio e vigili del fuoco, giornalisti e militari, contadini in pensione e poliziotti, che perdono la vita mentre lavorano non sono conteggiate, perché non hanno un’assicurazione INAIL. L’Istituto semplicemente dirama bollettini incompleti, spacciati frettolosamente per dati generali.

 

“Dicano chiaramente con un comunicato che monitorano le morti solo tra i propri assicurati e non tra quei milioni di lavoratori che non sono iscritti a questo istituto” – chiede Soricelli.

Ma non basta. Si rende conto che rimangono fuori dal conteggio partite IVA e precari, in tutti i settori, per non parlare dei lavoratori a nero. Chiarito l’equivoco, si capisce la differenza tra i dati.

Nel 2013, ad esempio, i morti sul lavoro sono stati secondo l’Istituto di previdenza in totale 790, la metà dei quali in “itinere”, cioè morti mentre si recavano sui luoghi di lavoro. Per l’Osservatorio indipendente i morti erano stati invece 1.160. Più di 1.300 se si conteggiano anche le partite IVA.

 

“Io monitoro tutte le persone che muoiono lavorando” – spiega – “Non mi interessa che lavoro facciano, assicurate o meno. E non dico che è sempre colpa del padrone cattivo. Ma se uno muore lavorando c’è qualcosa che non funziona”.

 

Ma è soprattutto il trend a dividere le valutazioni dell’INAIL da quelle dell’Osservatorio. Dall’inizio della crisi, i decessi sono in diminuzione, dicono dall’Istituto. “Non è vero” – ribatte Soricelli in una lettera aperta lo scorso 24 settembre – “i morti sui luoghi di lavoro non sono mai calati da quando ho aperto l’Osservatorio. Anzi, addirittura sono aumentati del 5,9% rispetto al 24 settembre di quell’anno e dell’8,6% rispetto al 24 settembre del 2013. Si sono solo trasferite con un aumento, dai lavoratori assicurati all’INAIL agli altri, ai non tutelati”, spiega.

Una strage che continua, un fenomeno addirittura in crescita. E per questo Soricelli si è apertamente schierato contro l’abolizione dell’articolo 18, definendola “una vergogna”.

 

“Anche con l’articolo 18” – osserva – “ci sono stati tantissimi tentativi di licenziare lavoratori che si opponevano al mancato rispetto delle normative vigenti. Ma ci sono stati anche tanti reintegri perché i giudici potevano valutare se il licenziamento era giusto o c’era la volontà di colpire chi voleva solo che venissero rispettate le normative sulla sicurezza che appesantiscono il lavoro”.

 

Il vero obiettivo, per il pittore-ex metalmeccanico, “è eliminare i sindacati scomodi, non filo-padronali che cercano di tutelare la sicurezza dei lavoratori all’interno delle aziende. In dieci anni, se questa cosa passa, sindacati come la FIOM spariranno. Non avranno più iscritti. E saranno i precari a pagare il prezzo più alto, perché se si rifiutano di fare i lavori pericolosi, rischiano il licenziamento”.

 

Obiettiamo a Soricelli che i precari non hanno però l’articolo 18. “Ma che discorso è?” – si accalora – “Abbassare i diritti a qualcuno per darli a tutti, mi dicono. Gli rispondo io: per non darli a nessuno. E’ come dire che siccome ci sono squadre di Serie A e di Serie B, per metterle tutto sullo stesso piano, le portiamo tutte in C. Così vogliono fare con i lavoratori. Zero diritti, zero tutele”.

 

Ce l’ha con la politica Soricelli, soprattutto con quella sinistra oggi arrembante “che prende i voti dai lavoratori e poi non fa il suo lavoro”, con quel gran furbo di Renzi “che governa con i voti di Bersani”.

Eppure ci ha provato a dialogare con il primo ministro e con i suoi uomini. “Ho scritto il 28 febbraio a Renzi e ai Ministri del Lavoro e dell’Agricoltura. Dico: attenzione, tra pochi giorni comincia in agricoltura la strage della gente che manovra i trattori. Quattro morti su dieci avvengono in agricoltura, e il 68% di queste morti sono causate dal trattore. Fate una campagna informativa prima di tutto, e poi una leggina per mettere in sicurezza i mezzi meccanici. Nessuna risposta. Sa quanti contadini sono morti da quel giorno? Centoventi di tutte le età: il più giovane aveva 18 anni, il più vecchio 83”.

 

Anche per questa insipienza della politica, Soricelli ha anticipato che il 31 dicembre 2014 ha intenzione di chiudere l’Osservatorio, che nel frattempo è diventato un punto di riferimento sul fenomeno anche all’estero, in Paesi come la Germania e gli Stati Uniti.

 

“Chiuderò per indifferenza, è impossibile avere in questo paese una voce libera da qualsiasi vincolo, tentare di coinvolgere la classe dirigente è peggio che scalare una montagna a piedi scalzi” – accusa.

E intanto incassa la solidarietà della stampa più attenta, mentre continuano ad arrivare, ogni giorno, decine di segnalazioni da tutta Italia.

 

di Antonio Fico

 

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VENETO E MORTE: STORIA TRANSNAZIONALE DI UNA FILIERA LOCALE

 

Da: Clash City Workers

http://clashcityworkers.org

 

La notizia dei quattro operai morti ad Adria (Rovigo) è già stata seppellita dai telegiornali sotto le necessità politiche contingenti. Lo stesso è accaduto qualche tempo fa per la morte inopportuna di sette cinesi a Prato.

 

Quanto meno dopo la morte esiste evidentemente un’uguaglianza tra lavoratori migranti e italiani. Molto meglio parlare di mercato del lavoro che di morti sul lavoro.

 

I tre operai e il camionista sono deceduti in un impianto di trattamento di fanghi industriali a causa di una miscela di ammoniaca e acido solforico che ha provocato una nube tossica. Difficile dire se si tratta di un errore umano o se gli evidenti problemi di sicurezza della ditta, sottolineati dal PM incaricato, siano stati decisivi.

Ma non è da escludere che le sostanze dichiarate non fossero quello che poi hanno prodotto la reazione.

Certo è che la decina di occupati della Co.im.po. conosceva il lavoro e sapeva bene qual era la situazione fuori di lì. Il Polesine è rimasto meno colpito del resto del Veneto dalla crisi economica, ma perché qui il benessere è sempre arrivato di striscio. Si prende quello che c’è, perché da queste parti non c’è molta discussione sulle condizioni di lavoro, anche a costo di usare delle vasche inadeguate, di lavorare senza maschere protettive e in fretta. Gli operai non sono ancora stati ingaggiati né in serie A né in serie B.

 

Il presidente Giorgio Napolitano, subito prima o subito dopo aver dichiarato che bisogna essere coraggiosi e deregolare fino in fondo il mercato del lavoro, ha espresso il suo cordoglio ai familiari degli operai morti, così come il Governatore Luca Zaia e il Sindaco.

Dopo morti gli operai sono tutti da ricordare. Il sindaco Massimo Barbujani dice che si tratta di un’impresa controllata dall’Arpav che ha dato molto alla città e con la quale non c’erano mai stati problemi. Barbujani, un passato da corridore di rally e nuova stella della destra locale farebbe bene a chiedere qualche informazione ai vicini per capirci qualcosa.

Che l’impianto emanasse un odore nauseabondo è il segreto di Pulcinella. La gente del posto non solo si lamentava, ma aveva chiamato a più riprese le autorità perché svolgessero adeguati controlli.

D’altra parte se nel 1997 la ditta era autorizzata a trattare 3.000 tonnellate di fanghi di depurazione palabili, un decennio dopo era arrivata a quasi 100.000 tonnellate. La richiesta di raddoppiare il volume aveva trovato qualche intoppo, compreso qualche centinaio di firme contro quell’impianto che sprigionava odore acre nel bel mezzo della campagna. Ma la Co.im.po. sapeva come rompere il fronte critico di un piccolo borgo di cinquecento anime, sostenendo con qualche centinaio di euro la squadra di calcio locale.

 

La ditta fondata trent’anni fa è conosciuta e chiacchierata in paese proprio per questa attività di gestione dei rifiuti e per quello che ne è stato a lungo il proprietario, Mauro Luise, un uomo con il fiuto degli affari.

Passare dal trasporto del latte a quello dei rifiuti è stato il suo colpo di fortuna e gli ha permesso di girare con il Ferrarino. Uno dei tanti cresciuti nel capitalismo sfrenato degli anni Novanta. Qualche traversia giudiziaria l’ha anche avuta, per la sua attività di gestione e trasporto di rifiuti, arrivando fino alla Corte di Cassazione. Mentre il rinvio a giudizio nell’ambito di un’inchiesta della procura di Forlì è poi finito nel nulla. Il Luise aveva buone conoscenze e, fanno notare in paese, qualche frequentazione chiacchierata con chi avrebbe dovuto vigilare.

 

Dal 27 dicembre 2012 la ditta ha cambiato proprietà, sebbene pare rimanga un affare di famiglia: ora è amministrata da Gianni Pagnin, mentre nel consiglio di amministrazione troviamo la figlia trentottenne Alessia Pagnin e Glenda Luise, la figlia del Mauro di venticinque anni.

Brutto anno il 2012, quando l’azienda dichiarava una perdita di esercizio superiore ai 900.000 euro. Ma per quanto i bilanci possano raccontare, le cose alla Co.im.po. non vanno male, anche se la crisi si è sentita e gli affari sono un po’ in calo: nel 2013 il fatturato si è fermato a 6,7 milioni di euro con una perdita di 45.743 euro.

 

Come molti altri imprenditori veneti il Pagnin non ha solo quest’azienda: è amministratore unico della Immobiliare G.&G. Srl di Noventa Padovana, che ha fatturato di 24.000 euro nel 2012, e soprattutto è consigliere di amministrazione in Ecologia Noventana, che nel 2013 denunciava ricavi per 411.000 euro e utili per 91.000 euro.

In Ecologia Noventana ritroviamo Alessia Pagnin in qualità di presidente del consiglio di amministrazione.

Il Pagnin risulta poi amministratore di Imobiliaria Timis, con sede a Timisoara, e (pare insieme al Luise) della ditta La Fazenda, che opera nel settore agricolo, sempre a Timisoara. Complice una fidanzata rumena e qualche traversia finanziaria in Italia, il Luise vive ormai nel paese di Dracula e pare gestisca qualche affare in loco.

Insomma, società transnazionali di piccolo calibro, che sostengono business che forse si incrociano e si accavallano tra il basso Veneto, da un lato, e la solita terra promessa rumena, dall’altro. Filiere del capitale che risparmiano attraverso i confini, spostando lodevolmente soldi e investimenti e mostrando (come immaginiamo direbbe il Presidente Napolitano) quell’imprenditorialità degli italiani della quale tutti dobbiamo andare fieri. Soprattutto se si tratta di piccole imprese che, come tutti sanno, sono la vera spina dorsale della nazione, veneta o italiana che sia.

 

Se poi muoiono casualmente quattro operai veneti o sette cinesi, basta il cordoglio e avanti con il prossimo affare.

 

Caprimulgus

Connessioni Precarie

23 Settembre 2014

 

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DIRITTO MILITARE E SICUREZZA SUL LAVORO

 

Da Studio Cataldi – Quotidiano giuridico

http://www.studiocataldi.it

 

Militari: sicurezza sul lavoro, risarcimento danni per euro 150.000 oltre interessi.

Diritto militare e sicurezza sul lavoro: il risarcimento danni causati a militare in servizio.

 

Un nota di commento alla Sentenza n.2020/12 del TAR Lombardia (Brescia Sezione 1) in tema di sicurezza sul lavoro in ambito militare e risarcimento dei danni biologico, morale, psichico, esistenziale, alla vita di relazione e alla dignità personale anche per violazione di norme antinfortunistiche da parte dell’amministrazione.

 

Il principio generale ricavabile dalla lettura del testo della Sentenza offre e conferma le preziose linee guida da utilizzare per la domanda di danni anche avanti il TAR, similmente a quanto accade per le istanze promosse davanti il Giudice Ordinario o al Magistrato del Lavoro.

 

I criteri per approdare alla prova del danno sono:

  • il ricorrente deve provare i fatti costitutivi dell’obbligazione, ovvero il titolo di essa;
  • può limitarsi ad allegare il fatto dell’inadempimento;
  • deve provare il danno subito e il nesso causale fra l’inadempimento e il danno (così in termini generali ma la soluzione, nel senso che il danneggiato possa limitarsi ad allegare l’inadempimento, è costante a partire dalla nota Sentenza n. 13533 del 30/10/01 della Cassazione Civile Sezioni Unite).

 

Con ricorso 2008, A. ha premesso di essere militare in sevizio nell’Arma dei Carabinieri, di esser stato ricoverato d’urgenza il XX/XX/XX presso l’Ospedale di C., di avere ricevuto in tale occasione la diagnosi di sclerosi multipla, di esser stato quindi, in dipendenza dalla malattia contratta, trasferito presso la Stazione Carabinieri di C. quale addetto al servizio rilevamento dati, mansione che comportava anche la necessità di archiviare manualmente pesante materiale cartaceo, posto su scaffali a notevole altezza; di essere, asseritamente a causa delle sue precarie condizioni di salute, precipitato da una scala utilizzata per tale mansione e di avere per tal fatto subito un danno alla persona, a suo dire dovuto a negligenza dell’amministrazione sua datrice di lavoro; ha pertanto concluso per la condanna della stessa al ristoro del danno patito.

 

Ha resistito alla domanda l’amministrazione della Giustizia, con memoria formale nella quale ha chiesto la reiezione del ricorso.

 

Il Collegio ha disposto Consulenza Tecnica di Ufficio (CTU) medico legale sui fatti di causa, intesa ad appurare quanto richiesto dal ricorrente nei termini di cui in epigrafe; la Sezione ha inoltre disposto la comparizione personale dellla CTU per chiarimenti, indi ha ritenuto la causa non compiutamente istruita quanto agli aspetti medico legali, e più specificamente quanto all’influenza della patologia già in essere a carico del ricorrente sull’allegato infortunio, quanto alla eziologia dell’allegato danno e quanto alla misura di esso ed ha disposto la rinnovazione della CTU, affidandola a diverso consulente.

 

La domanda del ricorrente nel merito è da ritenersi fondata.

 

Occorre ricordare che A. ha agito nella presente sede per sentir condannare l’amministrazione di appartenenza al risarcimento del danno asseritamente arrecatogli a titolo di responsabilità contrattuale: tale dato non muta anche osservando che il richiamo al “contratto di lavoro” è giuridicamente impreciso, trattandosi propriamente di militare legato all’amministrazione da un rapporto di servizio: anche da tale rapporto, così com’è pacifico, sorgono diritti ed obblighi delle parti, il cui inadempimento può generare responsabilità civile: in tal senso, per implicito ma inequivocabilmente, vedi Sentenza TAR Puglia Bari sezione III del 27 gennaio 2011 n.190, che si cita per tutte, in quanto relativa al caso analogo di un militare della Guardia di Finanza.

 

La giurisprudenza, nel caso particolare, che qui rileva, del rapporto concernente una prestazione lavorativa, in cui si faccia valere la responsabilità del datore per infortunio subito dal dipendente, traduce le regole generali in materia di danno nell’equivalente massima secondo la quale il lavoratore ha il solo onere di provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno; non deve invece provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall’articolo 1218 del Codice Civile (vedi per tutte Sentenza n.16003 del 19/06/07 della Cassazione Civile Sezione Lavoro): in termini logici, è infatti chiaro che dover provare il fatto storico dell’inadempimento, ma non la colpa della controparte, significa avere l’onere di provare che l’obbligazione sussiste con certi connotati, ma potersi limitare all’allegazione dell’inadempimento.

 

A riprova, la stessa giurisprudenza in tema di infortuni sul lavoro è costante nell’affermare che, a fronte della prova suddetta da parte del lavoratore, il datore può andare esente da responsabilità solo se a sua volta provi che il danno è avvenuto per causa a lui non imputabile, ovvero in concreto se dimostri di avere adottato tutte le cautele necessarie, che per inciso possono anche non esaurirsi nel mero rispetto di misure antinfortunistiche tipiche indicate dalla legge.

 

Le regole così delineate si applicano infine anche al caso di specie, di militari dipendenti dalla relativa amministrazione (vedi la già citata Sentenza TAR Puglia Bari sezione III del 27 gennaio 2011 n.190, nonché la Sentenza n.34345 del 14/10/02 della Cassazione penale Sezione IV), per l’esplicita affermazione secondo la quale l’obbligo di rispettare le norme antinfortunistiche sussiste anche nei riguardi del personale militare nell’ambito delle relative strutture.

 

Nel caso di specie, applicando le regole esposte, ritiene il Collegio che sussistano tutti gli estremi per accogliere la domanda risarcitoria di A.

 

In primo luogo, il ricorrente ha provato i fatti storici presupposto dell’obbligazione inadempiuta, ha cioè dato la prova di essere militare in servizio nell’Arma dei Carabinieri sin dal XX/XX/XX; di essersi ammalato il XX/XX/XX di quella che all’inizio venne qualificata come “malattia demielinizzante” e successivamente in modo più preciso come “sclerosi multipla”, e di essere stato successivamente assegnato (su propria domanda e non d’ufficio, come invece sostenuto nel ricorso, anche se il dato appare ai fini di causa non influente) alla Stazione dei Carabinieri di C. quale “addetto al rilevamento dati”.

 

Si deve poi tener conto, ai fini suddetti, ma anche più in generale per la prova di tutti gli ulteriori fatti di causa rilevanti, della condotta processuale della Pubblica amministrazione intimata, la quale ha solo chiesto “cautelativamente” il rigetto del ricorso.

 

In proposito, il Collegio deve ripetere quanto già affermato nella propria Sentenza 9 giugno 2011 n.860, peraltro conforme a consolidati principi dottrinali e giurisprudenziali. Da un lato, ai sensi dell’articolo 39, comma 1 Codice della Pubblica Amministrazione, che peraltro riproduce una precedente norma applicata in via pacifica, al processo innanzi al giudice amministrativo “si applicano le disposizioni del Codice di Procedura Civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”; dall’altro, così come affermato in giurisprudenza, è necessario, se non altro per il rispetto del principio di uguaglianza, riconoscere alle situazioni giuridiche dei pubblici dipendenti, pur se devolute come nel caso presente alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, un trattamento processuale non deteriore rispetto a quello accordato agli altri lavoratori; su detta linea, in particolare, la Corte Costituzionale (Sentenza del 28 giugno 1985 n.190) ha dichiarato illegittimo l’articolo 21 dell’allora vigente Legge 1034/71 nella parte cui non riconosceva agli stessi la medesima tutela cautelare disponibile presso il Giudice ordinario del lavoro.

 

In tale quadro concettuale, non si può non ritenere applicabile al giudizio su un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato in sede di giurisdizione esclusiva il principio di cui all’articolo 416, comma 3 prima parte del Codice di Procedura Civile, che è indubbiamente tale se non altro perché conforme al novellato dell’articolo 167 del Codice di Procedura Civile: il convenuto nel processo di lavoro nel primo suo atto difensivo “deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”.

 

Con riguardo alle circostanze specifiche, del rapporto di servizio, dell’iniziale malattia del ricorrente e della sua assegnazione a C., va comunque detto, ad abbondanza, che si tratta di fatti non contestati anche in prosieguo di causa.

 

Il ricorrente ha poi provato la specifica obbligazione inadempiuta, ovvero il fatto storico dell’infortunio sul lavoro occorsogli: presso la Stazione di C., egli venne adibito in particolare al Casellario, e in tale mansione, avente in buona sostanza contenuto archivistico, si trovò nella necessità di spostare a mano, per prelevarli dalle scaffalature e riporli, pesanti faldoni cartacei; nell’espletare tale attività salì su una scala in dotazione per sistemare alcuni fascicoli che reggeva in mano, perse l’equilibrio, precipitò dalla scala stessa da una altezza di circa tre metri e batté il capo sul pavimento, perdendo i sensi e venendo ricoverato all’ospedale.

 

Il ricorrente ha infine dato la prova del danno subito e del nesso causale fra l’inadempimento ed il danno.

 

Le conclusioni dell’ulteriore CTU, sono risultate sostanzialmente in linea con quelle della CTU del dottor C. per quanto riguarda l’accertamento della patologia in atto e delle relative cause, e quindi ne costituiscono una sostanziale conferma di validità sul punto, discostandosene solo in punto di liquidazione del danno.

 

Il Collegio condivide appieno le conclusioni delle CTU svolte, ritenendosi accertato che A., a causa del trauma subito, ebbe a soffrire una lesione inquadrabile “nella compromissione delle funzioni cognitive” compromissione che è ulteriormente descritta nella CTU del dottor S. in termini di difficoltà a concentrarsi, a mantenere l’attenzione, ad apprendere e a ricordare. Il CTU del dottor C. qualifica poi in termini sintetici tale patologia come “danno aggiuntivo rispetto alla patologia preesistente”, ovvero alla sclerosi multipla in essere, e il CTU del dottor S. è concorde con tale conclusione.

 

E’ interessante notare che a tali considerazioni di ordine prettamente medico legale sul nesso di causalità fra l’infortunio occorso e il danno subito, ne va ad abbondanza aggiunta un’altra che assume valore per lo meno indiziario: vi è infatti anche l’apprezzamento dell’amministrazione, la quale, come da verbale del XX/XX/XX della Commissione medica di B., richiesta dal Comando dei Carabinieri di appartenenza, ebbe a giudicare come dipendente da causa di servizio il trauma cranico occorso.

Se è vero che il giudizio della Commissione è limitato, dichiaratamente, al solo trauma cranico, non si deve infatti sottacere che nel verbale relativo si parla degli “esiti” del trauma in questione e si dà ampio conto della situazione neurologica del paziente.

 

L’amministrazione, infine, non ha dato prova alcuna della dipendenza dell’infortunio da causa a essa non imputabile, nel senso di avere adottato tutte le misure antinfortunistiche idonee nel caso concreto; di contro, è stata raggiunta la prova positiva che carenze nelle misure antinfortunistiche vi furono.

 

L’amministrazione non ha contestato la complessiva ricostruzione dell’infortunio svolta dal ricorrente; per quanto attiene all’uso delle scale, esiste in proposito una disciplina specifica, che all’epoca dei fatti era quella di cui agli articoli 18 e seguenti del D.P.R.547/55 e all’articolo 8 del D.P.R.164/56, sicuramente applicabili anche all’amministrazione militare: non risulta infatti che un uso potenzialmente pericoloso delle scale a mano faccia parte delle “particolari esigenze connesse al servizio espletato” che ai sensi della norma in questione limitano l’applicazione delle norme antinfortunistiche ai Corpi militari ed equiparati.

 

Rileva in particolare l’articolo 19 del D.P.R.547/95, secondo il quale “quando l’uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti pericolo di sbandamento, esse devono essere trattenute al piede da altra persona”; rileva ancora l’articolo 8 del D.P.R.164/56, per cui “durante l’uso le scale devono essere sistemate e vincolate. All’uopo, secondo i casi, devono essere adoperati chiodi, graffe in ferro, listelli, tasselli, legature, saettoni, in modo che siano evitati sbandamenti, slittamenti, rovesciamenti, oscillazioni od inflessioni accentuate (comma 4). Quando non sia attuabile l’adozione delle misure di cui al precedente comma, le scale devono essere trattenute al piede da altra persona (comma 5).”

 

E’ poi rilevante anche il disposto dell’articolo 113, comma 7 del D.Lgs.81/08 che, pur non in vigore all’epoca dei fatti, appare a sua volta recepire regole di buona prassi e comune diligenza da osservare in ogni caso: esso dispone che “Il datore di lavoro assicura che le scale a pioli siano utilizzate in modo da consentire ai lavoratori di disporre in qualsiasi momento di un appoggio e di una presa sicuri. In particolare il trasporto a mano di pesi su una scala a pioli non deve precludere una presa sicura.”

 

Alla luce di quanto appena esposto, si deve concludere che nell’infortunio occorso ad A. la condotta dell’amministrazione va qualificata come negligente; tra l’altro, in tale contesto l’amministrazione stessa provvide a nominare i rappresentanti per la sicurezza solo nel maggio 1998, ovvero a più di tre anni di distanza dall’entrata in vigore del D.Lgs.626/94 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 novembre 1994 ed entrato in vigore, secondo la regola generale il quindicesimo giorno successivo): si tratta ad avviso del Collegio di una violazione del sopra ricostruito obbligo di diligente promozione, considerando sia il tempo passato sia il modesto onere economico connesso a tale adempimento. In proposito, non vi è poi dubbio che la nomina tempestiva del rappresentante, incaricato come per legge di segnalare le carenze nella prevenzione infortuni, avrebbe potuto evitare il fatto, ad esempio promuovendo una più tempestiva eliminazione delle scale in questione.

 

Per completezza va considerata di per sé negligente la condotta dell’amministrazione che nella specie adibì A. ai descritti compiti di archiviazione: questa non disconobbe le condizioni particolari del ricorrente attivandosi per trovargli una sede di servizio che lo potesse agevolare, ma essendosi assunta tale obbligo, doveva secondo logica adempierlo in modo compiuto, verificando che le mansioni in concreto assegnate fossero effettivamente adatte alle condizioni di A, il che come si è detto invece non si verificò.

 

In punto di quantificazione e liquidazione del danno, essa si compie con il noto sistema della tabella dei punti percentuali di invalidità, a ognuno dei quali, in relazione con l’età del soggetto, corrisponde una data somma di danaro; si fa in particolare riferimento alla cosiddetta tabella di Milano, elaborata per iniziativa di quel Tribunale, che, secondo quanto affermato dalla argomentata Sentenza n.12408 del 07/06/11 della Cassazione Sezione III, costituisce comunque criterio valido su scala nazionale, in quanto esplicazione dell’equità di cui all’articolo 2056 del Codice Civile.

 

Applicando i suddetti criteri al caso concreto, bisogna farsi carico della divergente conclusione, come si è detto l’unica di rilievo, raggiunta sul punto dagli esperti nominati. Il dott. C, facendo riferimento alla citata tabella di Milano, ha infatti determinato l’invalidità dipendente dal disturbo cognitivo di cui si è detto nel 40%, come danno derivante dalla sola caduta. Il dott. S. invece determina la stessa invalidità in un valore inferiore, del 30%, a titolo di invalidità permanente, cui aggiunge l’invalidità temporanea. Il Collegio ritiene di far propria tale ultima valutazione, per i motivi di cui subito.

 

In primo luogo, il dott. S., che come si è detto è in possesso di specifica preparazione medico legale, non riscontrabile nel primo perito, si è riferito a prontuari di riferimento ben precisi, puntualmente citati, riguardo ai quali stavolta l’amministrazione intimata non ha ritenuto di avanzare critica alcuna.

 

In secondo luogo, lo stesso CTU si è fatto specifico carico di individuare il metodo migliore per calcolare il danno, escludendo che si possa nella specie applicare il criterio del cosiddetto danno differenziale, che avrebbe determinato una liquidazione maggiore. In proposito, è sufficiente ricordare che tale criterio, tuttora di per sé controverso e non universalmente accettato in letteratura, si applica sul presupposto di più lesioni succedutesi nel tempo a carico del “medesimo distretto organo funzionale”, mentre nel caso presente sono interessate “due funzioni neurologiche distinte”, ovvero “l’area motoria”, colpita dalla sclerosi, e quella “cognitiva”, interessata dal trauma.

 

Infine, il dott. S. ha operato una delimitazione più precisa del danno subito, escludendo che ne possa far parte la sindrome depressiva riscontrata nel ricorrente dopo il trauma, sindrome che da un lato è spiegabile come reazione alla grave malattia già in atto, dall’altro non è stata oggetto di specifici approfondimenti.

 

Tutto ciò posto, la citata tabella di Milano, per una invalidità del 30% in un soggetto il quale alla data dell’infortunio aveva 27 anni conducono a liquidare un danno pari ad 150.590 (centocinquantamilacinquecentonovanta) euro, che il Collegio ritiene di riconoscere senza incrementi per le cosiddette personalizzazioni, ovvero per specifici e ulteriori pregiudizi sofferti dall’interessato; alla somma liquidata andranno infine aggiunti gli interessi legali.

 

Avvocato Francesco Pandolfi

cassazionista

 

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LA NON RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER INFORTUNIO OCCORSO AL LAVORATORE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

 

15 settembre 2014

di Gerardo Porreca

 

Il legale rappresentante di una società non può essere ritenuto automaticamente responsabile penalmente di ogni violazione degli obblighi antinfortunistici se per assolvere agli stessi ha specificamente investito dei preposti.

 

La Sentenza n.33417 del 29 luglio 2014 della Corte di Cassazione Sezione IV Penale è interessante in quanto, ribaltando le decisioni assunte dai giudici di merito, ha annullata la sentenza di condanna emanata dagli stessi nei confronti dell’amministratore di una società, ritenuto responsabile dell’infortunio occorso ad un lavoratore dipendente, allineandosi così con quelli che sono gli indirizzi forniti dal legislatore con il D.Lgs.81/08 il quale ha previsto nella organizzazione del sistema sicurezza sul lavoro di una azienda, specie per quelle di grosse dimensioni, uno scalettamento di mansioni, incarichi e responsabilità che, a partire dal datore di lavoro, deve estendersi alle figure intermedie quali il dirigente, il preposto, i capi settore ecc. fino ad arrivare al lavoratore stesso che dalle norme in materia di salute e di sicurezza sul lavoro è ritenuto figura attiva nella prevenzione e nella realizzazione delle misure di salute e di sicurezza.

L’amministratore e il legale rappresentante di una società, ha affermato infatti la suprema Corte, specie se la stessa è di ampie dimensioni, non può essere, solo perché riveste tale carica, ritenuto automaticamente penalmente responsabile, perché se così fosse si verterebbe in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva, di ogni violazione degli obblighi antinfortunistici, comunque determinatasi, se per l’assolvimento degli stessi, per il rispetto delle cautele e delle misure, pur previamente approntate, in relazione alla attività svolta nel caso concreto, abbia specificatamente investito dei preposti che sono perciò tenuti a far osservare le regole di condotta all’uopo imposte.

 

Il Tribunale ha dichiarato il legale responsabile di una società cooperativa colpevole del delitto previsto e punito dall’articolo 590, secondo e terzo comma, del Codice Penale per avere cagionato, per colpa generica e specifica, consistita nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, delle lesioni personali gravi a un dipendente della società medesima e lo ha condannato, concesse le attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulla contestata aggravante, alla pena (sospesa) di giorni 15 di reclusione.

Secondo la ricostruzione del fatto che si legge in sentenza il lavoratore, recatosi in un reparto diverso da quello al quale era addetto per prendere documenti che gli servivano per effettuare un inventario, aveva ivi notato che sul nastro trasportatore si erano bloccate delle casse e, allo scopo di far andare avanti la produzione e anche per un gesto di gentilezza nei confronti di un’operaia del reparto che doveva altrimenti provvedervi, era salito su di una scala che era legata alla parete in modo tale da impedire che fosse aperta a forbice e nello scendere dalla stessa però scivolava e cadeva a terra, sia pure in posizione verticale, procurandosi le lesioni riportate.

Al datore di lavoro si rimproverava la violazione dell’articolo 35, comma 4, lettera a) del D.Lgs.626/94, per non avere preso le misure necessarie affinché l’attrezzatura di lavoro fosse installata in conformità alle istruzioni del fabbricante e utilizzata correttamente e per avere consentito in particolare che la scala a forbice, dell’altezza di 3,20 m, rimanesse fissata alla parete con una catena al fine di evitarne lo scivolamento, laddove essa avrebbe dovuto essere invece usata solo una volta che fosse stata completamente aperta e con i quattro appoggi a contatto con il suolo.

Secondo la Corte d’appello, che ha confermata la sentenza di condanna, si poteva ritenere sufficientemente dimostrato che le modalità di utilizzo della scala non erano conformi a quelle raccomandate nel manuale d’istruzioni della casa produttrice che prevedeva solamente un utilizzo mediante posizionamento della scala a forbice onde consentire una maggiore stabilità all’attrezzo.

 

Quanto al nesso di causalità era stato rilevato dai giudici del gravame che lo scivolamento del lavoratore infortunato, pur magari dovuto anche a una sua imprudenza, non si sarebbe verificato o non si sarebbe verificato con le stesse conseguenze dannose se la scala fosse stata appoggiata correttamente e stabilmente a forbice con i quattro appoggi tutti fissati al suolo, in quanto, in tal caso, del tutto verosimilmente il lavoratore avrebbe avuto la possibilità di reggersi o appigliarsi ad un sostegno fisso, oltre che al muro che, in tal caso, avrebbe fiancheggiato, per così dire, la scala stessa, una volta correttamente appoggiata con le due parti dì fianco al muro medesimo.

Gli stessi giudici della Corte territoriale avevano osservato, altresì, che la manovra fatta nell’occasione dalla persona offesa, pur non rientrando nelle mansioni proprie del lavoratore, non si poteva considerare una manovra del tutto anomala ed eccezionale in quanto si versava in un contesto sicuramente non esorbitante dal complessivo processo lavorativo della ditta tanto più che già in passato altri avevano fatto la stessa cosa e che sempre lo stesso lavoratore era stato già chiamato altre volte dal suo direttore o caporeparto a compiere analoghe operazioni di manutenzione.

 

Per quanto sopra detto quindi non si poteva negare, secondo la Corte, la responsabilità del legale rappresentante della società non essendo emersa una struttura dell’azienda di tale complessità da doversi presumere l’esistenza di una delega implicita in materia di prevenzione infortuni, né essendo sufficiente a tal fine, in assenza di apposita delega, il mero fatto che un altro soggetto svolgesse le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Avverso la decisione della Corte di Appello l’imputato, per mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di alcune motivazioni dirette a contestare l’affermazione della sua penale responsabilità.

 

L’imputato ha denunciato in sintesi un vizio di contraddittorietà della sentenza impugnata per avere da un lato dato atto che l’azienda si estendeva su oltre 10.000 metri quadrati, che occupava 1.000 operai ed era organizzata in vari reparti, affidati alla responsabilità di capi reparto, e dall’altro ritenuto che l’organizzazione dell’azienda non era particolarmente complessa, tale da fare, in ipotesi, reputare come implicita una ripartizione dì funzioni e, quindi, una tacita delega. L’organizzazione aziendale, ha sostenuto il ricorrente, non poteva non ritenersi di per sé complessa stante anche la profonda diversità delle lavorazioni eseguite (macellazione, selezione delle carni, caricamenti, ecc.) e che pertanto, in tale situazione, la delega al Direttore di stabilimento e ai vari preposti era necessaria, esplicita o comunque implicita nella ripartizione delle funzioni.

Secondo l’imputato quindi averlo ritenuto responsabile penale in riferimento ad un momentaneo uso di una scala a norma si è risolto in buona sostanza nella prospettazione di un profilo di responsabilità oggettiva, tanto più che si trattava di un incidente che, per le modalità richiamate, evidenziava connotazioni di assoluta banalità e occasionalità.

 

Lo stesso imputato ha lamentato, altresì, che la sentenza impugnata aveva peraltro omesso di prendere in esame la doglianza circa il fatto che la persona offesa aveva nella circostanza eseguita un’operazione lavorativa che non avrebbe dovuto eseguire in assenza del responsabile del reparto, momentaneamente allontanatosi, preposto anche a rimuovere l’inconveniente che si era verificato sulla linea di produzione.

 

Il responsabile legale della società ha fatto osservare inoltre nel ricorso che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di Appello e cioè che secondo il manuale di istruzioni predisposto dalla casa costruttrice della scala il suo utilizzo dovesse avvenire esclusivamente nella posizione di apertura a forbice, nel documento di istruzioni dell’attrezzatura si poteva invece ricavare facilmente che l’utilizzo della stessa poteva avvenire in entrambe le modalità e, cioè, aperta a forbice o semplicemente appoggiata alla linea di produzione. Lo stesso faceva notare infine che l’incidente si era verificato non per l’oscillazione della scala, ma perché l’operaio, nonostante calzasse scarpe antisdrucciolo, era scivolato per cui la causa era da individuare in un accadimento fortuito che avrebbe potuto verificarsi anche con la scala aperta a forbice.

Le motivazioni addotte dal ricorrente sono state ritenute dalla Corte di Cassazione fondate. La suprema Corte ha tenuto a chiarire in merito che “l’amministratore e legale rappresentante di una società, specie se di ampie dimensioni non può essere, solo per tale carica rivestita, automaticamente ritenuto penalmente responsabile (si verterebbe in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva) di ogni violazione degli obblighi antinfortunistici, comunque determinatasi, ove per l’assolvimento degli stessi, per il rispetto delle cautele e delle misure, pur previamente approntate, in relazione a quella attività svolta nel caso concreto, abbia specificamente investito dei preposti, che sono perciò tenuti a far osservare le regole di condotta all’uopo imposte”.

 

“Non può riconoscersi penale responsabilità all’amministratore” – ha infatti proseguito la Sezione IV – “che, avendo approntato tutte le misure richieste, abbia delegato un preposto alla organizzazione e all’espletamento di specifica attività, ove il preposto sia persona tecnicamente idonea e capace, che abbia volontariamente accettato l’incombenza, nella consapevolezza degli obblighi che vengono su di lui ad incombere, e che sia fornita di idonei poteri determinativi e direzionali al riguardo, e sempre che il datore di lavoro, nel più generale contesto della posizione di garanzia che a lui fa capo, non si esima, comunque, dall’obbligo di sorvegliare e accertare che il preposto usi concretamente ed effettivamente dei poteri all’uopo conferitigli, dando concreta attuazione alle disposizioni impartite e alle misure volta a volta dovute”.

Tale obbligo di vigilanza, ha peraltro precisato la suprema Corte, non può estendersi sino a richiedere la continua presenza sul luogo del datore di lavoro, se amministratore di società di notevoli dimensioni, in ognuna delle singole circostanze episodiche in cui il lavoro viene svolto dai dipendenti. “In tema di infortuni sul lavoro” – ha ancora ribadito la Sezione IV – “il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è responsabile allorché l’azienda sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi e a ciascuno di questi siano stati in concreto preposti soggetti qualificati e idonei, nonché dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la completa gestione degli affari inerenti a determinati servizi”.

La suprema Corte ha ritenuto ancora di rammentare che l’articolo 1, comma 4-bis, del D.Lgs.626/94, così come modificato dal D.Lgs.242/96, nel disporre che “il datore di lavoro che esercita le attività di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 e, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, i dirigenti e i preposti che dirigono o sovraintendono le stesse attività, sono tenuti all’osservanza delle disposizioni del presente Decreto, comporta, secondo interpretazione pacificamente acquisita nella giurisprudenza di questa suprema Corte, che i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti), al pari di quest’ultimo, sono da considerare, per il fatto stesso di essere inquadrati come dirigenti e preposti e, nell’ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, destinatari iure proprio dell’osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc”.

Nel caso in esame non si può dubitare, ha proseguito la Sezione IV, che il comportamento doveroso la cui violazione è addebitata all’imputato e cioè quello di assicurarsi che l’utilizzo della scala a forbice avvenisse in modo conforme alle prescrizioni della casa produttrice, rientrasse tra i compiti propri del preposto al singolo reparto, senza peraltro evidentemente richiedere alcun impegno di spesa né il dispiegamento di poteri organizzativi esorbitanti quelli che possono ritenersi impliciti nella stessa articolazione in reparti e nel correlato organigramma.

Per quanto riguarda l’uso scorretto dell’attrezzatura, ha quindi concluso la suprema Corte, è risultato inequivocabilmente acclarato in giudizio che l’evento si era determinato in via del tutto accidentale e in forza di una dinamica che in realtà prescinde del tutto dalla posizione della scala essendosi trattato, infatti, di un mero scivolamento dell’operaio nel discendere dalla scala, sfortunata evenienza che non autorizza a ritenere che sia stata anche solo occasionata o favorita dal fatto che la stessa fosse appoggiata al muro, anziché aperta a forbice.

Per i motivi sopraindicati la Sezione IV Penale della Corte di Cassazione ha quindi, ai sensi dell’articolo 620, lettera l del Codice di Procedura Penale, annullata la sentenza impugnata senza rinvio per insussistenza del fatto.

 

La Sentenza n.33417 del 29 luglio 2014 della Corte di Cassazione Sezione IV Penale è scaricabile all’indirizzo:

http://www.repertoriosalute.it/wp-content/uploads/2014/09/casspen20140730_33417.pdf

 

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LA VALUTAZIONE DEI RISCHI E I COMPITI INDELEGABILI DEL DATORE DI LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

 

18 settembre 2014

Rolando Dubini, avvocato in Milano

 

Il primo dei compiti indelegabili del datore di lavoro è la valutazione di tutti i rischi lavorativi. La normativa, le responsabilità del datore, la posizione di garanzia e le indicazioni della giurisprudenza.

 

L’articolo 2, comma 1, lettera q) del D.Lgs.81/08 definisce la valutazione dei rischi come “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata a individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e a elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”.

L’articolo 17 del D.Lgs.81/08, dedicato agli “Obblighi del datore di lavoro non delegabili del datore di lavoro”, prevede che:

“1. Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività:

  1. a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28;
  2. b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi”.

Indelegabilità non significa ovviamente impossibilità di effettuare detta valutazione avvalendosi di altre e più specifiche professionalità: significa solamente che eventuali carenze di detta valutazione configureranno una responsabilità comunque ascrivibile al datore di lavoro.

Esistono dunque compiti non delegabili in quanto ontologicamente collegati alla funzione dell’imprenditore, come le scelte generali strutturali in tema di sicurezza e la dislocazione, sempre su un piano generale, delle risorse.

 

E infatti la responsabilità del titolare dell’azienda non è esclusa, pur in presenza di una valida delega, qualora le deficienze siano dovute a cause strutturali

(vedi Sentenza n.10129 del 24/09/94 della Corte di Cassazione Sezione I, Sentenza n.631 del 14/06/93 della Corte di Cassazione Sezione III, Sentenza n.93378 del 30/08/00 della Corte di Cassazione Sezione III).

 

In una vicenda processale di particolare rilievo la Cassazione ha ribadito, in ottemperanza al citato dettato normativo, che la delega pur valida conferita dall’imputato ad altro soggetto “non vale a esonerarlo da responsabilità, essendo taluni obblighi, tra cui quello di valutare i rischi connessi all’attività di impresa e di individuare le misure di protezione, ontologicamente connessi alla funzione ed alla qualifica propria del datore di lavoro e, quindi, non utilmente trasferibili” (Sentenza n.4123 del 27/01/09 della Corte di Cassazione Sezione IV). In questo caso specifico la Cassazione ha riconnesso le omissioni colpevoli a carico dell’Amministratore Delegato e del Comitato Esecutivo per la mancata valutazione del rischio incendio e quindi a causa dell’omessa individuazione delle corrispondenti misure di prevenzione e protezione, quindi ad obblighi di natura indelegabile che non potevano non gravare su detto soggetto.

Tali obblighi sono così ontologicamente connessi alla funzione propria e alla qualifica del datore di lavoro da renderli assolutamente insuscettibili di traslazione su altri soggetti.

Con la legislazione prevenzionistica vigente “si sono distinte le funzioni e la posizione di garanzia che è propria del datore di lavoro e non è delegabile a terzi dalle funzioni delegabili. In questo modo si sono enucleati degli obblighi così ontologicamente connessi alla funzione propria e alla qualifica del datore di lavoro da renderli assolutamente insuscettibili di traslazione su altri soggetti, sia pure prescelti ed espressamente delegati dal titolare. Si tratta dei compiti di valutazione dei rischi connessi all’attività d’impresa, di individuazione delle misure di prevenzione e dei mezzi di protezione, di definizione del programma per migliorare i livelli di sicurezza, di fornitura dei dispositivi necessari di protezione individuale, di designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (Sentenza n.14192 del 21/04/06 della Corte di Cassazione Sezione VI).

 

“Il datore di lavoro non è tenuto ad elaborare personalmente il piano di sicurezza [documento di valutazione di tutti i rischi], ma dovrà scegliere gli esperti che lo faranno, fissando i tempi e i modi delle forme di controllo della loro attività senza rimettere ad altri l’incarico di assumere questa iniziativa e una volta ottenuto il piano dovrà reperire le risorse, organizzare le strutture e distribuire i compiti fra i suoi collaboratori per renderlo operante” (Sentenza n.14192 del 21/04/06 della Corte di Cassazione Sezione VI).

“La non delegabilità di funzioni non significa che il datore di lavoro non possa servirsi di persone maggiormente competenti e qualificate per la valutazione del rischio e la redazione del documento di valutazione del rischio. Significa solo che questi compiti rimangono suoi e il documento conserva questa provenienza.

il datore di lavoro ha un obbligo preciso di informarsi preventivamente sui rischi presenti nell’azienda ai fini della loro valutazione e di verificare successivamente se il documento redatto affronti adeguatamente i temi della prevenzione e della protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tenendo conto delle informazioni acquisite sull’esistenza dei rischi. Solo se abbia curato lo svolgimento da parte sua di questi compiti potrà anche rimettersi, per l’accertamento e l’adozione delle scelte tecniche idonee a contrastare i rischi e che abbiano carattere di specializzazione da lui non posseduta, alle conclusioni di un consulente interno od esterno sulle quali non abbia la competenza necessaria per interloquire. Insomma se la non delegabilità ha un senso il datore di lavoro ha l’obbligo di valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il documento, di valutare preventivamente quali siano i rischi ritenuti maggiormente significativi all’interno dell’azienda, di verificare se questi rischi siano stati presi in considerazione nel documento e se siano state prospettate soluzioni idonee a contrastarli. Se a questi obblighi il datore di lavoro abbia adempiuto non potrà essere ritenuto responsabile di una scelta tecnica errata da lui non controllabile (se non con la scelta di altra persona tecnicamente qualificata: ma in questo modo si andrebbe all’infinito). Questo assetto consente di contemperare il principio della non delegabilità con l’esigenza di impedire la violazione del principio della personalità della responsabilità penale creandosi surrettiziamente una responsabilità penale da posizione che configurerebbe un caso di responsabilità oggettiva” (Sentenza n.4981 del 06/02/04 della Corte di Cassazione Sezione IV).

 

La Cassazione in plurime sentenze, ha già avuto modo di statuire che nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione (vedi Sentenza n.38991 del 04/11/10 della Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n.6280 del 08/02/08 della Corte di Cassazione Sezione IV).

 

Infatti, anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega.

 

In una fattispecie relativa a impresa il cui processo produttivo prevedeva l’utilizzo dell’amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell’esistenza di amministratori muniti di delega per l’ordinaria amministrazione e dunque per l’adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori o aspetti particolari dell’attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell’azienda, il cui radicale mutamento (per l’onerosità e la portata degli interventi necessari) sarebbe stato indispensabile per assicurare l’igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali. Ciò è in perfetta sintonia con quanto previsto dall’articolo 2392 del Codice Civile, in tema di Società per Azioni e vigente all’epoca dei fatti. Tale disposizione, nel prevedere che gli amministratori nella gestione della società devono adempiere i doveri a essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, stabilisce che anche se taluni compiti sono attribuiti a uno o più amministratori, gli altri componenti “sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione” (Sentenza n.988 del 11/07/02 della Corte di Cassazione Sezione IV).

In sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione.

Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi di vigilanza e intervento sostitutivo.

In definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni a uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del Consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa e organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro (vedi Sentenza n.38991 del 04/11/10 della Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n.4968 del 31/01/14 della Corte di Cassazione Sezione IV).

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