SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.199 DEL 16/03/15

Ascolta con webReader

SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.199 DEL 16/03/15

 

INDICE

  • Responsabilità del datore di lavoro per infortuni sul lavoro e malattie professionali
  • Con il decreto ILVA si autorizza l’uso delle scorie nei manti stradali: a rischio molte inchieste
  • Rocca Canavese: la strage dimenticata delle piccole fiammiferaie
  • Sicurezza sul lavoro: ispezione dei NAS in ambiente ospedaliero
  • Guariniello e la sentenza Eternit: quando si consuma il reato di disastro?
  • Jobs Act: le modifiche in materia di ispezioni e formazione

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul lavoro! Know your rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

——————————————-

 

RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER INFORTUNI SUL LAVORO E MALATTIE PROFESSIONALI

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

PREMESSE STORICO GIURIDICHE – NORMATIVA NAZIONALE E COMUNITARIA

Che il lavoratore dovesse essere assistito è principio antico e costituisce un sentimento fondamentale del vivere in un contesto sociale. Già infatti durante la rivoluzione francese si affermava che “la società è tenuta a provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri”.

A queste premesse, per altro verso, corrisponde il principio, anch’esso risalente al diciannovesimo secolo e tuttora valido, per cui chi si giova del lavoro di un soggetto, deve anche assumersi i correlativi doveri e obblighi intesi a garantire la suddetta assistenza e sicurezza in caso di infortuni o malattie professionali.

Il soggetto che deve garantire il lavoratore è, quindi, il suo datore di lavoro, sia esso individuo o persona giuridica.

La responsabilità del datore di lavoro nasce dalla necessità di attuare i suddetti principi riconosciuti dalla nostra Costituzione: articolo 32 (tutela della salute nei luoghi di lavoro), articolo 35 (tutela del lavoro), articolo 38 (tutela del lavoratore in caso di infortunio o malattia), articolo 41 (l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da arrecare danno alla sicurezza alla libertà, alla dignità umana), nonché ribaditi dalle norme dell’ordinamento dello Stato Italiano.

Nell’ambito del nostro ordinamento già la lontana Legge n. 80 del 17 marzo 1898 costituisce la prima normativa nella materia prevedendo una assicurazione obbligatoria a carico del datore di lavoro contro gli infortuni per le industrie più pericolose; il primo Testo Unico di legge per gli infortuni degli operai sul lavoro viene successivamente emesso con Regio Decreto n. 51 del 31 gennaio 1904; la legge n. 1765 del 17 agosto 1935 riconfermava ancora la tutela del lavoratore e i conseguenti obblighi del datore di lavoro, e infine, il Testo Unico 1124 del 1965 e il Decreto Legislativo n. 38 del 2000 costituiscono l’attuale normativa speciale di riferimento.

A parte, ma considerata norma fondamentale, deve essere citata la disposizione di cui all’articolo 2087 del Codice Civile della quale si dirà e alla quale va affiancata la norma di cui all’articolo 2049 del medesimo Codice Civile.

In sede penale dobbiamo, inoltre tenere presenti altre disposizioni che prevedono, parimenti, la responsabilità del datore di lavoro per particolari fattispecie criminose (articolo 437 del Codice Penale e articolo 451 del Codice Penale) per non parlare di tutti i reati contravvenzionali per omissione di misure di sicurezza previsti dal Decreto Legislativo n.626 del 1994 e successivamente dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008.

Sono citazioni in sintesi di norme che, in prosieguo vedremo più in particolare valutando come la normativa abbia via via previsto i modi e le condizioni per il sorgere di una responsabilità del datore di lavoro nei casi di cui si discute.

Altrettanti riconoscimenti del diritto alla salute e sicurezza del lavoratore, con conseguenti obblighi per chi ne è datore di lavoro, sono chiaramente previsti dal Diritto comunitario.

Già il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 all’articolo 118 prevedeva la protezione del soggetto contro gli infortuni sul lavoro.

Nel Diritto comunitario, ricordiamo il Regolamento CEE n. 1408 del 14 giugno 1971 che afferma il diritto di rivalsa degli Enti assicuratori nei confronti del responsabile dell’infortunio, ma, in particolare, va ricordata la Direttiva 39/391 che riconosce all’articolo 5 l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro. Le Direttive devono, comunque essere recepite dallo Stato Membro con apposita legge, peraltro, ricordiamo che la stessa Costituzione, all’articolo 10 impone di uniformarsi alle norme del Diritto internazionale.

La responsabilità del datore di lavoro per inosservanza dei suddetti principi è, dunque, riconosciuta anche in sede di diritto comunitario, con la conseguenza che una eventuale normativa interna di uno Stato membro non potrebbe escludere tale responsabilità in quanto contraria a norme comunitarie prevalenti sulla normativa nazionale.

Si aggiunga che la Costituzione Europea medesima ha ribadito il diritto a condizioni di lavoro sane e sicure (articolo II 91) e il diritto a un livello elevato di protezione della salute umana (articolo II 95).

 

I TIPI DI RESPONSABILITA’

Dopo tali premesse, passiamo ad osservare da vicino quale e quando vi sia responsabilità del datore di lavoro per i casi di infortuni o malattie professionali.

La responsabilità del datore di lavoro, ovviamente, sorge quando questi non ha osservato gli obblighi a lui imposti per la tutela del lavoratore.

In sintesi, al datore di lavoro possono essere riconosciute tre tipi di responsabilità:

  • responsabilità civile;
  • responsabilità penale;
  • responsabilità amministrativa.

 

RESPONSABILITA’ CIVILE

Come accennato in precedenza, norma basilare per il riconoscimento della responsabilità è l’articolo 2087 del Codice Civile che impone al datore di lavoro di adottare le misure atte a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Sul contenuto di detta norma si è molto parlato e molto discusso, sia in dottrina che in giurisprudenza. Si è detto che in tale disposizione trovano giustificazione e origine le successive speciali norme che prevedono misure di sicurezza sul luogo di lavoro, che da tale norma trae anche origine la responsabilità penale del datore di lavoro in base all’articolo 40 del Codice Penale per non aver impedito l’evento; si è, inoltre, detto che in base ai principi in tale norma enunciati, è giustificata l’azione di regresso dell’ente assicuratore nei confronti del datore di lavoro inadempiente. Basti ora dire che la norma appare, per così dire, a contenuto aperto.

Infatti, la citata disposizione del Codice Civile si riporta solo in via generica a alcuni parametri quali la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per imporre, poi, al datore di lavoro le misure di sicurezza da adottare.

Ne consegue che vi è ampio margine per riconoscere la responsabilità del datore di lavoro, posto che questi si deve sempre adeguare alla evoluzione della tecnica e della esperienza per ritenersi in regola con le misure di sicurezza adottate.

Altra disposizione del Codice Civile da esaminare è quella di cui all’articolo 2049. In base a tale norma il datore di lavoro è responsabile anche quando l’omissione delle misure di sicurezza sia stata direttamente effettuata da altra persona da lui incaricata nell’ambito delle mansioni a lui conferite. In altri termini, il datore di lavoro risponde dei danni causati da violazione di misure di sicurezza compiuti dai suoi preposti o sorveglianti.

Sulla natura di tale responsabilità si è ugualmente discusso, ma è prevalente la tesi che trattasi di responsabilità oggettiva come è stato anche recentemente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione (Sentenza n. 6033 del 6 marzo 2008 e Sentenza n. 6632 del 12 marzo 2008) che ha affermato la configurabilità della responsabilità di cui all’articolo 2049 del Codice Civile. allorché tra l’evento illecito e le mansioni affidate sussista un rapporto di occasionalita’ necessaria.

E’ quest’ultimo uno dei pochi casi di responsabilità che la legge prevede senza indagare sul comportamento del soggetto, responsabilità che nasce sol che il preposto abbia commesso l’illecito nello svolgimento delle incombenze a lui attribuite dal datore di lavoro.

Da tanto detto, si può notare l’importanza che il legislatore attribuisce alla tutela del lavoratore.

Il principio della responsabilità oggettiva del datore di lavoro viene anche ripreso dalle norme speciali contro gli infortuni e le malattie professionali di cui al Testo Unico 1124 del 1965 che la prevede all’articolo 10 come presupposto della azione di regresso dell’INAIL.

Ciò posto, il riconoscimento di responsabilità civile del datore di lavoro comporta l’obbligo di risarcire i danni causati al lavoratore a seguito del fatto lesivo verificatosi.

Vedremo successivamente quanto in definitiva viene risarcito direttamente dal datore di lavoro e quanto invece indennizzato dall’Ente assicuratore.

In sostanza, il lavoratore deve, per legge, essere interamente indennizzato dei danni subiti a causa del lavoro, e se vi è colpa del datore di lavoro deve essere da lui risarcito direttamente (vedi danno differenziale) o tramite l’ente assicuratore pubblico INAIL.

Un commento a parte. merita l’assicurazione obbligatoria INAIL e i suoi riflessi sulla responsabilità civile del datore di lavoro.

Dice l’articolo 10 del Testo Unico n. 1124 del 1965 che la “responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro è esonerata, cioè esclusa, dalla assicurazione obbligatoria” prevista dal citato Testo Unico, ovvero dalla assicurazione INAIL.

Ne consegue che il datore di lavoro non risponde dei fatti che hanno determinato l’infortunio, purché non si tratti di aver commesso reato per il quale il datore di lavoro ha riportato condanna penale.

In altri termini, la responsabilità civile del datore di lavoro permane, nonostante la suddetta assicurazione, quando abbia avuto condanna penale per il fatto dal quale è derivato l’infortunio.

Permane la responsabilità civile del datore di lavoro, nonostante l’assicurazione INAIL, anche quando vi sia sentenza penale a carico del preposto alla direzione o sorveglianza del lavoro ritenuto direttamente colpevole dell’infortunio.

E’ questo il caso di responsabilità oggettiva del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2049 del Codice Civile di cui si è detto.

 

RESPONSABILITA’ PENALE

A questo punto occorre parlare della già menzionata responsabilità penale del datore di lavoro.

Le norme che impongono l’osservanza di misure di sicurezza nello svolgimento del lavoro, sono norme di rilevanza penale la cui inosservanza comporta commissione di reato, passibile di sanzione.

Le norme di tale natura sono innanzi tutto quelle previste dal Codice Penale (articolo 437 che stabilisce la responsabilità di “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro ovvero li rimuove o li danneggia” con l’aggravante specifica se dal fatto deriva un disastro o un infortunio).

Questo è un reato che ha una ampia formulazione e perciò possiamo ritenere ricompreso nelle norme speciali di sicurezza emanate successivamente.

Con qualche importante differenza. L’articolo 437 del Codice Penale tuttora in vigore non si rivolge solo al datore di lavoro, ma a chiunque compia quei fatti illeciti, e quindi anche ad estranei alla organizzazione del lavoro.

Inoltre l’articolo 437 del Codice Penale prevede come sanzione la reclusione. Dal che si deduce che il reato è classificabile come “delitto” e non semplicemente come “contravvenzione” e come tale, deve essere provato il dolo o la colpa del soggetto.

In sostanza il suddetto reato, seppure consiste in una omissione, si differenzia dalle contravvenzioni dove la colpa non deve essere specificamente provata, ma è insita nella omissione stessa.

Altro reato previsto dal Codice Penale di cui può essere imputato il datore di lavoro è quello previsto dall’articolo 451 (omissione o rimozione di apparecchi destinati alla estinzione di un incendio, al salvataggio, al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro).

Anche questo reato è un delitto determinato da omissione, delitto che interessa sia il datore di lavoro sia altri che lo abbiano compiuto. Anche per tale reato occorre provare la colpa .

Più specifiche le norme previste dal Decreto Legislativo 626 del 1994 che innanzi tutto si rivolgono direttamente al datore di lavoro e che impongono determinati comportamenti la cui inosservanza determina responsabilità penale del datore di lavoro medesimo.

Il successivo Decreto Legislativo n. 81 del 2008 ha ripreso e ampliato le norme di sicurezza già previste nelle vecchie leggi, di cui in particolare le norme di sicurezza previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 27 aprile 1955 e ha reso ancor più incisivi gli obblighi del datore di lavoro di quanto non fossero già indicati nel Decreto Legislativo n. 626 del 1994 che non aveva avuto, in effetti, piena osservanza.

Infortuni eclatanti (vedi quello presso la Thyssen-Krupp) e malattie professionali altrettanto dilaganti in conseguenza soprattutto dell’uso di amianto, hanno portato il legislatore ad inasprire le sanzioni per i datori di lavoro inadempienti.

Si tratta, dunque di norme di rilevanza penale la cui inosservanza da parte del datore di lavoro o dei suoi preposti, comporta la esclusione dell’esonero previsto dalla assicurazione INAIL e sanzioni penali .

Si tratta, peraltro, di responsabilità penale per reati contravvenzionali per i quali è previsto l’arresto o l’ammenda. Ciò vuol dire che per le omissioni commesse dal datore di lavoro la colpa è insita nella omissione stessa senza doverla provare specificatamente.

 

RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA (RESPONSABILITA’ DELLA SOCIETA’ DATRICE DI LAVORO)

Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001 ha riconosciuto la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, siano esse società o associazioni, anche prive di personalità giuridica.

In effetti, questa responsabilità viene rilevata in sede penale e si aggiunge a quella della persona fisica che materialmente ha realizzato l’illecito. Per la prima volta nel nostro ordinamento, viene rilevata in sede penale la responsabilità degli enti.

Poiché, comunque, è principio fondamentale che la responsabilità penale è personale, si è continuato ad affermare che, seppure rilevabile in sede penale, trattasi di responsabilità per così dire amministrativa. In sostanza, l’ampliamento della responsabilità degli enti tende a coinvolgere nella punizione di alcuni illeciti penali il patrimonio degli enti stessi e, quindi, tende a coinvolgere gli interessi economici dei soci i quali, prima di tale normativa, non subivano nessuna conseguenza dall’accertamento di reati commessi dagli amministratori o dipendenti, con conseguente vantaggio della società.

Si tratta di una grande innovazione normativa in quanto ora l’ente o la società datrice di lavoro e i soci, non possono considerarsi estranei al procedimento penale per i reati commessi violando norme di sicurezza a vantaggio o nell’interesse dell’ente.

I reati presi in considerazione sono l’omicidio colposo o le lesioni gravi e gravissime commesse con violazione degli obblighi non delegabili del datore di lavoro.

Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001 è stato integrato dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008 il cui articolo 300 ne modifica l’articolo 25-septies (omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse).

Esimente per la responsabilità dell’ente è la dimostrazione di aver adottato modelli e misure standard di organizzazione indicate dall’articolo 30 del Decreto Legislativo n. 81 del 2008.

 

COPERTURA ASSICURATIVA INAIL

Dopo aver indicato quale sia la responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, occorre brevemente accennare alla copertura assicurativa che l’INAIL, ente di assicurazione pubblica, dà al datore di lavoro in caso di evento lesivo occorso a un suo dipendente che possa classificarsi infortunio sul lavoro o malattia professionale.

La normativa di riferimento è il Testo Unico n. 1124 del 1965 e successive norme integrative come in particolare il Decreto Legislativo n. 38 del 2000.

Secondo la citata normativa, dicesi infortunio sul lavoro quello avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro da cui sia derivata la morte o una inabilità permanente al lavoro assoluta o parziale o una inabilità assoluta temporanea.

Dicesi malattia professionale quelle indicate nella tabella le quali siano contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella e quelle non indicate in tabella e non causate da una lavorazione specificata in tabella purché comunque sia provata la causa di lavoro.

Tale ultima definizione è il risultato degli interventi della Corte Costituzionale per cui la copertura sussiste anche se le malattie non siano previste nella tabella, ma si dia la prova della causa di lavoro.

Detto ciò, l’assicurazione che copre tali eventi lesivi esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile, permane, invece, se vi sia stata condanna penale del datore di lavoro o dei suoi preposti di cui risponde ai sensi dell’articolo 2049 del Codice Civile.

All’infortunato beneficiario della assicurazione l’ente corrisponde l’indennizzo al posto del datore di lavoro.

Ovviamente, se l’indennizzo dell’INAIL non copre l’intero risarcimento civilmente dovuto all’infortunato, il datore di lavoro risultato penalmente responsabile deve risarcire al proprio dipendente quella parte di danno non coperta dalla assicurazione (danno differenziale).

In sostanza, se non vi è responsabilità penale del datore di lavoro, l’assicurazione INAIL indennizza direttamente l’infortunato e come detto, esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante dal fatto lesivo subito dal lavoratore.

 

COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO

Come è noto le persone danneggiate dal reato possono costituirsi parte civile nel procedimento penale instaurato contro il responsabile dell’illecito penale che viene a lui imputato.

Detto questo in via generale, ne consegue, per quanto riguarda l’argomento di cui stiamo parlando, che contro il datore di lavoro imputato di reato di omicidio colposo o di lesioni gravi o gravissime per omissione di misure di sicurezza sul lavoro, la parte lesa può costituirsi parte civile. Quando parliamo di parte danneggiata ci riferiamo, innanzitutto, sia allo stesso infortunato, sia ai congiunti dello stesso.

Per molto tempo, si è anche parlato di costituzione di parte civile dell’INAIL quale ente assicuratore dell’infortunato.

Vi è chi sosteneva la impossibilità di costituzione dell’ente non essendo esso direttamente danneggiato.

A questo proposito occorre far cenno al perché l’INAIL potrebbe partecipare al processo penale e costituirsi parte civile.

L’interesse potrebbe ritenersi derivante dal diritto di regresso riconosciuto all’INAIL nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile per ottenere il rimborso delle prestazioni erogate all’infortunato.

In ogni caso, si è subito sentita l’esigenza di un intervento dell’INAIL nei procedimenti penali per infortuni e malattie professionali in quanto ritenuto utile a incentivare le aziende alla prevenzione e si sono formulate varie ipotesi per giustificare tale intervento.

Si è sostenuto che l’INAIL può ritenersi quanto meno ente rappresentativo di interessi lesi dal reato e quindi, come tale, intervenire. Il bene leso sarebbe quello della integrità fisica del lavoratore cui l’INAIL per legge è preposto alla tutela, infatti l’ente svolge una funzione anche di prevenzione; di conseguenza a esso si dovrebbe riconoscere la legittimazione all’intervento ad adiuvandum della pubblica accusa, collaborando nell’istruttoria.

La tesi appare interessante, ma va detto che i giudici non la seguirono e la Corte di Cassazione con una Sentenza del 24 novembre 1997 affermava che l’assicuratore non è legittimato neppure alla costituzione di parte civile in quanto non può essere considerato né offeso né danneggiato dal reato; altra Sentenza della Cassazione è la n. 2952 del 15 dicembre 2000 che parimenti escludeva l’ammissibilità della costituzione di parte civile dell’INAIL.

Peraltro, va ricordato che i giudici di merito alcune volte furono di diverso avviso rispetto alla Cassazione, ammettendo la costituzione di parte civile dell’INAIL. Ricordiamo il Tribunale di Ravenna investito a seguito di un terribile plurimo incidente di lavoro che ammise l’INAIL il 28 marzo 1990, il Tribunale di Siracusa nel 1999, il Tribunale di Ascoli Piceno nel 2002.

Tutte le questioni sono state eliminate allorché è stata emanata la Legge n. 123 del 2007.

Infatti, l’articolo 2 della citata Legge impone al Pubblico Ministero di informare l’INAIL quando eserciti l’azione penale per omicidio colposo o lesioni gravi commesse con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai fini della eventuale costituzione di parte civile.

Dunque l’INAIL è riconosciuto dal legislatore legittimato a essere parte civile nel processo penale, sarà poi l’ente a decidere se costituirsi o meno.

Il diritto è stato ribadito all’articolo 61 del successivo Decreto Legislativo n.81 del 2008.

In conclusione l’INAIL è ora legittimato a costituirsi parte civile nel procedimento penale contro il datore di lavoro imputato di omicidio colposo o lesioni personali gravi e gravissime per chiedere il rimborso delle prestazioni erogate all’infortunato in virtù del diritto di regresso riconosciuto dall’articolo 10 del Testo Unico n. 1124 del 1965 nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile.

A questo proposito ricordiamo una Sentenza della Cassazione Penale del 9 ottobre 2008 che prende atto di quanto statuito per legge.

Si conclude, quindi, il cerchio delle responsabilità in caso di infortuni sul lavoro riconosciute in capo al datore di lavoro dell’infortunato.

 

——————————————-

 

CON IL DECRETO ILVA SI AUTORIZZA L’USO DELLE SCORIE NEI MANTI STRADALI: A RISCHIO MOLTE INCHIESTE

 

Da: Il lavoro debilita

https://illavorodebilita.wordpress.com

 

di Silvia Cortesi

06/03/15

 

Questa è la denuncia del presidente della Commissione parlamentare sui rifiuti Alessandro Bratti: “l’emendamento sul recupero dei residui dei forni elettrici sarà un’arma di difesa per gli accusati nei processi sull’occultamento di scorie inquinanti sotto l’autostrada Brebemi e la Valdastico sud”. E “un passepartout per le acciaierie”.

 

Le scorie d’acciaieria dell’ILVA di Taranto potranno essere usate in tutta Italia. Sotto le strade, nelle massicciate ferroviarie, come materiale di riempimento per le bonifiche e i recuperi ambientali.

E cambierà anche la normativa di riferimento per stabilire se quegli scarti industriali sono pericolosi e inquinanti oppure no.

Lo prevede un emendamento al Decreto ILVA, presentato dai senatori Alessandro Maran (PD) e Aldo Di Biagio (FLI) e già approvato in commissione lo scorso 19 febbraio. Dunque sarà parte integrante del testo che sarà votato con la fiducia alla Camera il 3 marzo.

 

“Un passepartout per le acciaierie italiane per poter collocare queste scorie in tutte le infrastrutture” – dice a Il Fatto Quotidiano il presidente della Commissione parlamentare sui rifiuti Alessandro Bratti – “utilizzando un test che non esiste ed è semplicemente un lasciapassare”.

Il Decreto prevede infatti che per caratterizzare le scorie venga utilizzato, al posto del vecchio “test di cessione” delle sostanze inquinanti, un regolamento europeo (il 1907 del 2006) pensato per la “registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche” che “nulla ha a che fare con i rifiuti: una pura invenzione, che introdurrà soltanto nuovo caos”.

 

La possibilità per l’ILVA di utilizzare le scorie senza effettuare il test di cessione degli inquinanti “potrebbe determinare un pericoloso precedente” – prosegue Bratti – “perché anche tutti gli altri impianti sarebbero legittimati a comportarsi allo stesso modo”.

 

Molte le inchieste e i processi a rischio, secondo il presidente della Commissione rifiuti, tra tutte quelle sulle scorie di acciaieria smaltite sotto l’autostrada Brebemi, di cui si è occupata la Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia, e quelle finite sotto l’autostrada Valdastico sud (Vicenza) su cui indaga la Procura Antimafia di Venezia. Due inchieste finite sotto i riflettori della Commissione ecomafie.

 

L’emendamento al Decreto ILVA è stato presentato dal senatore friulano del PD, ex Scelta Civica, Alessandro Maran, e dal collega di FLI Aldo Di Biagio, già a capo dell’ufficio relazioni internazionali dell’allora Ministro delle Politiche agricole e forestali Gianni Alemanno.

“I residui della produzione dell’impianto ILVA di Taranto” – si legge nel testo del Decreto – “costituiti dalle scorie provenienti dalla fusione in forni elettrici possono essere recuperati per la formazione di rilevati, di alvei di impianti di deposito di rifiuti sul suolo, di sottofondi stradali e di massicciate ferroviarie o per riempimenti e recuperi ambientali”.

 

Non solo per i terrapieni e i sottofondi stradali, ma anche nel caso dei materiali di riporto per le bonifiche ambientali e per i recuperi “a verde” delle cave esaurite, potranno essere utilizzati dunque rifiuti speciali, in particolare i “rifiuti del trattamento delle scorie” (Codice Europeo dei Rifiuti 10 02 01), le “scorie non trattate” (Codice 10 02 02) e le “scorie di fusione” (Codice 10 09 03).

 

La legge prevedeva già la possibilità di utilizzare le scorie di acciaieria per i rilevati stradali, se adeguatamente trattate e conformi al test di cessione previsto dal Decreto del Ministero dell’Ambiente del 5 febbraio 1998.

Proprio sulla quantità e qualità degli inquinanti presenti nelle scorie utilizzate nelle infrastrutture si sono sviluppate alcune delle principali inchieste sul traffico di rifiuti nel nord Italia.

 

Il Decreto ILVA però permetterà alle aziende di utilizzare, “se più favorevole”, il Regolamento CE 1907 del 2006 al posto del test di cessione, affidando poi all’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) il compito di “accertare l’assenza di rischi di contaminazione per la falda e per la salute nel termine di 12 mesi dall’avvenuto recupero”.

Entro un anno dalla fine dei lavori, quindi, l’ISPRA dovrà accertare se c’è stato danno per l’ambiente.

 

“Chi si difende nei processi per traffico di rifiuti utilizzerà la norma a suo favore” – commenta il presidente Bratti – “e tutto rischierà di finire in prescrizione. Ricordiamoci che il sostituto procuratore antimafia Roberto Pennisi, recentemente, ha dichiarato che l’autostrada Brebemi è stata fatta al solo scopo di interrare rifiuti”.

 

——————————————-

 

ROCCA CANAVESE: LA STRAGE DIMENTICATA DELLE PICCOLE FIAMMIFERAIE

 

Da: Diritti distorti

http://www.dirittidistorti.it

 

La storia spesso si dimentica delle tante storie che la compongono. Così episodi importanti che hanno portato grandi lutti o grandi avvenimenti spesso rimangono in qualche angolo dal quale non riesce a farli uscire nemmeno “il magico” Google con il suo motore di ricerca, dove si trova pochissimo al riguardo.

Questo mi è successo nell’imbattermi nella strage delle fiammiferaie di Rocca Canavese (Piemonte) avvenuta nel 1924. Non la conoscevo finché un’amica, Caterina, rispolverando i ricordi di sua madre, mi ha raccontato della morte di alcune giovanissime lavoratrici di una fabbrica di fiammiferi, rimaste intrappolate in fabbrica dove divampò un incendio.

Pochissime si salvarono, gettandosi dalle finestre, tra loro un’amica della mamma di Caterina: una giovane assai bella che scappò alla morte, ma non alle ferite lasciate dal fuoco.

 

Lo scorso anno, novant’anni dopo quella strage, il Comune di Rocca Canavese ha dedicato una giornata a quella tragedia, che come sottolineò il Sindaco “non ricorda quasi più nessuno”.

 

Lo storico Carlo Boccazzi Varotto, ha scritto un breve saggio dal titolo “Le piccole fiammiferaie. Una tragedia del lavoro dimenticata”, in questo libro va anche alla ricerca del perché sia caduto il silenzio su una strage sul lavoro tra le più grandi del Paese.

 

Allora ricordiamo brevemente i fatti: siamo al 15 marzo del 1924, la fabbrica si chiamava Phos Italiana, ci lavoravano ragazze, bambine, tra i 12 e i 17 anni, si guadagnavano quattro o cinque lire al giorno.

Morirono 18 di loro e anche 3 uomini. Le giovani lavoravano chiuse nella fabbrica e per questo scappare dal fuoco fu quasi impossibile.

 

All’indomani della tragedia in 10.000 persone parteciparono ai funerali. Poi ci furono i processi e gli indennizzi: il Sindacato Subalpino di Assicurazione Mutua pagò un indennizzo pari a 5 annualità di salario a cui si aggiunsero altre 52.249 lire grazie a una sottoscrizione.

 

Su come andarono i fatti non si hanno molti particolari e la memoria della vicenda è stata più cancellata che tramandata, circostanza singolare se si pensa al numero delle vittime, alla loro età e alle condizioni di lavoro.

Forse perché la maggior parte delle vittime furono donne?

Forse perché la Phos era stata comunque un’opportunità per quella piccola comunità?

 

Una delle poche testimonianze è nel testo di una canzone popolare dell’epoca, recentemente riscoperto da una professoressa, e che racconta il drammatico incidente.

 

Ne riportiamo il testo:

A Rocca Canavese ha distrutto ogni cosa

un incendio che orror,

eran giovani sul fior degli anni

lavoravano con grande ardor.

Ivi presso il torrente Malone,

era sorta un’azienda industrial

di fiammiferi nuova invenzione

col lavoro assai forte e normal.

Un giorno del 15 marzo

uno scoppio tremendo si sente,

affannosa tutta la gente

corre presso il torrente Malon.

Vi eran donne del Canavesano

nel fior della lor gioventù,

che l’incendio terribile e strano

ha distrutto e non vivono più.

Ventitré sono i corpi incendiati

stritolati, schiacciati, chissà.

Quanti restan tuttor sotterrati

che ancor chiedon salvezza e pietà.

Sulla tomba di questi infelici

una lacrima e un fiore posiam.

E Tu, Sommo Fattor, benedici

le lor anime, oh Dio, ti preghiam.

 

——————————————-

 

SICUREZZA SUL LAVORO: ISPEZIONE DEI NAS IN AMBIENTE OSPEDALIERO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

 

SICUREZZA SUL LAVORO, ISPEZIONE DEI NAS IN AMBIENTE OSPEDALIERO

COSA ACCADE SE IL MINISTERO NON ASSOLVE AGLI OBBLIGHI DI PROTEZIONE E DI INFORMAZIONE

 

Il TAR di Campobasso viene chiamato ad accertare se da parte del Ministero della Difesa vi sia stata a danno di un Militare la violazione di specifichi obblighi di protezione e di informazione ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile, con specifico riferimento alla materia della sicurezza sul lavoro.

I magistrati giungono ad accogliere la domanda del ricorrente, o meglio dei suoi eredi (TAR Campobasso, sentenza n. 693/14).

 

Il ricorrente, Maresciallo capo in servizio permanente effettivo nell’Arma dei Carabinieri, ha chiesto la condanna del Ministero della Difesa al risarcimento di tutti i danni subiti a seguito dell’incidente occorsogli e quantificati in via approssimativa in euro 434.626,47 per danno biologico da invalidità permanente, oltre al danno biologico da invalidità temporanea totale e parziale, alla perdita patrimoniale derivante dall’incidenza dell’invalidità permanente sulla capacità lavorativa specifica, al danno morale, al rimborso delle spese mediche, con interessi e rivalutazione monetaria.

 

Ha premesso di aver svolto servizio presso il Nucleo Antisofisticazioni e Sanità (NAS) con l’incarico di effettuare controlli presso presidi ospedalieri pubblici e privati, studi odontoiatrici, ambulatori medici, discariche di rifiuti speciali, in particolare, di essersi punto a un dito della mano destra con un ago di una siringa infetta mentre stava eseguendo dei controlli presso un ospedale civile. Riferisce di aver contratto, a seguito di tale evento, una seria patologia e ha dovuto sottoporsi a un intervento cui seguivano numerosi ricoveri dovuti al progressivo aggravarsi dalla malattia, documentati dalle cartelle cliniche depositate in giudizio. Viene sottoposto a visita presso il Centro Militare legale di Chieti che ha riconosciuto come dipendente da causa di servizio la grave patologia contratta, evento che viene annotato sul foglio matricolare.

 

Il Ministero della Difesa gli riconosce l’indennità speciale una tantum a norma dell’articolo 7 ultimo comma del D.P.R.738/81 per l’invalidità derivatagli dalla predetta infermità dipendente da causa di servizio; disattende tuttavia la richiesta di risarcimento del danno biologico da invalidità permanente, da inabilità temporanea totale e parziale, come pure del danno conseguente alla diminuita capacità lavorativa specifica.

 

Nelle more del giudizio decede il ricorrente; la causa viene quindi riassunta dagli eredi.

Viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio per accertare la natura, l’entità del danno biologico subito dal ricorrente e la sua compatibilità, dal punto di vista eziologico, con quanto riferito dall’esponente circa l’evento causativo del danno.

 

Il Consulente Tecnico di Ufficio (CTU) ragiona nel seguente modo.

Trattandosi di verifica da condurre su rifiuti in ambito ospedaliero, doveva ritenersi certamente prevedibile il rischio di una impropria commistione tra rifiuti alimentari e rifiuti speciali ospedalieri a rischio infettivo.

La circostanza che si tratti di negligente gestione dello smaltimento di rifiuti da parte della struttura ospedaliera, in patente violazione degli articoli 355 e 356 dell’allora vigente D.P.R.547/55 in tema di sicurezza sul lavoro, non esimeva l’amministrazione militare dal prevedere, proprio alla luce dei compiti istituzionali affidati al NAS, che le regole in materia potessero essere violate con conseguente esposizione dei militari addetti ai controlli, a uno specifico e prevedibile rischio elettivo: i dispositivi di sicurezza dovevano pertanto essere adeguati a fronteggiare proprio tale specifica tipologia di rischio, reso ancora più concreto dai compiti di contrasto alle violazioni in materia assolti dal NAS.

Sebbene l’ispezione avesse per oggetto il controllo circa la possibile somministrazione di cibi avariati, la necessità di svolgere le verifiche in un ambiente, quale quello ospedaliero, caratterizzato dalla diffusa circolazione di diverse tipologie di rifiuti, tra cui, in primis, quelli sanitari (che ricomprendono, accanto a quelli a rischio infettivo, o provenienti da attività di ricerca o di diagnostica anche quelli taglienti), rendeva prevedibile e concreto il pericolo di uno smaltimento promiscuo, con conseguente necessità di dotare gli operatori di adeguati dispositivi di protezione atti a prevenire il pericolo di taglio o di infezione in caso di contatto accidentale.

 

La prevedibilità e quindi la conseguente evitabilità di tali eventi è confermata dalla stessa perizia laddove il CTU afferma che “tali prodotti di scarto (i rifiuti ospedalieri a rischio infettivo) per la loro capacità di ledere la cute integra, presentano un rischio permanente di veicolare infezioni nei soggetti che li manipolano, anche se non appaiono microscopicamente contaminati da sangue o altri liquidi biologici”.

Per tale motivo, un gran numero di infortuni e di malattie professionali che si verificano nelle aziende sanitarie sono riconducibili all’inappropriata gestione dei rifiuti. Infatti “la quasi totalità degli eventi in oggetto sono dovuti alla negligenza degli operatori che non provvedono a manipolare e smaltire correttamente i taglienti o pungenti, per esempio non riposizionando il cappuccio o inserendoli in contenitori non idonei (sacchi per rifiuti urbani)”.

 

La mancata dotazione di dispositivi di protezione idonei configura dunque un’ipotesi di colpa generica per inosservanza di cautele doverose collegate al rischio specifico, proprio dell’ambiente ospedaliero, di incappare accidentalmente in uno smaltimento irregolare di rifiuti con conseguente probabile esposizione degli operatori nelle operazioni di controllo al pericolo di entrare in contatto con rifiuti a rischio infettivo, da cui la necessità non solo di informarli preventivamente su tali rischi, ma anche di dotarli di adeguati dispositivi di protezione idonei a proteggerli in caso di punture o tagli.

 

Del resto, come evidenzia lo stesso CTU, è lo stesso articolo 373 del D.P.R.547/55 in tema di sicurezza sul lavoro, in vigore all’epoca dei fatti, a prescrivere, con riferimento ai prodotti taglienti e/o pungenti che “nella fabbricazione, manipolazione o impiego di materie o prodotti taglienti o pungenti quali lamiere sottili, trucioli metallici, vetri, aghi, devono essere adottati mezzi, sistemi meccanici o attrezzature, atti ad evitare il contatto diretto delle stesse materie o prodotti con le mani o altre parti scoperte del corpo o comunque a ridurre al minimo la pericolosità della manipolazione”.

 

Tanto premesso, mentre in prima battuta il CTU esclude la sussistenza di una colpa specifica valorizzando l’oggetto della verifica ispettiva a cui correla la idoneità del dispositivo di protezione assegnato in dotazione al Maresciallo, pervenendo pertanto alla conclusione della idoneità dei guanti in lattice monouso a preservare il milite da esposizioni a rischio, trattandosi di rifiuti alimentari, il TAR va oltre e accoglie la domanda.

 

Dicono infatti i saggi Magistrati: “il ragionamento (del CTU) pecca di astrattezza, atteso che non considera le caratteristiche dell’ambiente ospedaliero caratterizzato da un elevato rischio di smaltimento promiscuo di rifiuti alimentari e speciali, a rischio infettivo, anche in considerazione della elevata complessità del processo di raccolta caratterizzato da una molteplicità di centri di produzione dei rifiuti e dalla difficoltà a coordinarli efficacemente nel rispetto delle norme che già all’epoca imponevano di contrassegnare in modo chiaro e distinguibile i contenitori destinati alla raccolta di materiali pericolosi o nocivi tra cui gli oggetti taglienti o puntuti (articoli 355 e 356 del D.P.R.547/55) e ciò anche a motivo dell’elevato numero di persone a rischio di condotte inappropriate nelle modalità di raccolta (personale medico, paramedico e ausiliario) che possono generare ricorrenti e variegate situazioni di pericolo per la salute”.

 

Se dunque non sussiste una colpa specifica in relazione all’oggetto della verifica ispettiva, v’è certamente colpa generica per inosservanza di cautele doverose, in relazione alle specifiche mansioni del NAS e alle caratteristiche dell’ambiente ospedaliero, aggravata dalla assenza di una preventiva adeguata informazione dei rischi di esposizione ad agenti biologici (approntata solo successivamente all’evento), come confermato dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri in risposta a richiesta di chiarimenti sul punto del TAR.

 

avvocato Francesco Pandolfi

telefono: 328 60 90 590

e-mail: francesco.pandolfi66@gmail.com

web: www.pandolfistudiolegale.it

 

——————————————-

 

GUARINIELLO E LA SENTENZA ETERNIT: QUANDO SI CONSUMA IL REATO DI DISASTRO?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

27 febbraio 2015

di Tiziano Menduto

 

Ai “nostri microfoni” il Sostituto Procuratore Raffaele Guariniello commenta le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione relativa al processo Eternit. I contrasti di interpretazione su quando si consuma il reato di disastro e i futuri processi.

 

Il 23 febbraio sono state depositate le motivazioni della Sentenza della Corte di Cassazione del 19 novembre 2014 relativa al processo Eternit. Sentenza che con la prescrizione ha estinto il reato di disastro ambientale doloso per il quale prima la Procura di Torino aveva mandato sotto processo il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e poi la Corte di Appello lo aveva condannato a 18 anni di reclusione e al pagamento di diversi milioni di euro di indennizzi. L’istituto giuridico della prescrizione nel diritto penale determina appunto l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo.

 

Una lettura delle motivazioni della Sentenza della Cassazione confermano quello che già alla lettura del dispositivo della sentenza si evidenziava: il processo era già prescritto prima ancora di cominciare…

Come è possibile che ciò sia accaduto? Dopo il proscioglimento di Stephan Schmidheiny e l’annullamento dei risarcimenti alle vittime, ci potrà essere giustizia per le migliaia di vittime che hanno respirato le polveri d’amianto degli stabilimenti italiani della multinazionale Eternit dal 1966 al 1986? E quali possono essere le conseguenze sui futuri processi di questa sentenza?

A rispondere alle nostre domande è il Sostituto Procuratore Raffaele Guariniello, coordinatore del pool di magistrati della Procura di Torino specializzato nei problemi relativi alla sicurezza sul lavoro e Pubblico Ministero nel processo Eternit.

Il procuratore mostra come alla base della sentenza ci sia “un contrasto di interpretazioni tra il Tribunale e la Corte d’Appello da una parte e la Corte di Cassazione dall’altra su quando si consuma il reato di disastro”.

Contrasto non da poco se la conseguenza è che in sostanza buona parte dei “disastri a cui stiamo assistendo in questi anni sono tutti disastri ormai prescritti”.

Tuttavia la giustizia per le vittime non si ferma: c’è un secondo processo che riguarda il rinvio a giudizio per omicidio volontario di 258 persone e un “Eternit-ter”.

Anche perché, come spiega il Procuratore in merito alle imputazioni, non c’è il “ne bis in idem”, non c’è cioè il rischio di giudicare due volte su uno stesso reato.

L’intervista che vi proponiamo è la seconda parte di un intervista più ampia che aveva come punto di partenza il commento alla Sentenza del 3 febbraio 2015 della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione in merito al crollo al Liceo Darwin di Rivoli del 22 novembre 2008 [pubblicata nella Newsletter 198 di “Sicurezza sul lavoro! Know your rights” del 10/03/15].

Punto Sicuro: Veniamo brevemente alle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione relativo al caso Eternit, depositate il 23 febbraio. Al di là del proscioglimento del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, dalle motivazioni si può rilevare che il processo era già prescritto prima ancora di cominciare. Che cosa è successo?

Raffaele Guariniello: Lì c’è un contrasto di interpretazioni tra il Tribunale e la Corte d’Appello da una parte e la Corte di Cassazione dall’altra su quando si consuma il reato di disastro.

Senza voler scendere troppo nel tecnico la Corte di Cassazione, in particolare non la Sezione Quarta ma la Sezione Prima che è una sezione non specializzate in materia di sicurezza sul lavoro, ha sostenuto che il reato di disastro si consumerebbe con la immissione delle polveri di amianto nell’ambiente, cosa avvenuta sino a che gli stabilimenti sono stati aperti. Una volta chiusi gli stabilimenti, il reato sarebbe stato ormai consumato. Ed è da quel momento che, secondo questa impostazione, inizia a decorrere il termine di prescrizione.

Secondo invece la impostazione adottata dal Tribunale e la Corte d’Appello di Torino il reato di disastro non si consuma nel momento in cui vengono immesse le polveri d’amianto, ma continua a consumarsi nel tempo. Quindi in realtà ancora oggi non sarebbe esaurita la consumazione e quindi il reato non sarebbe prescritto.

In questa seconda direzione si muoveva la Sezione Quarta della Corte di Cassazione in una sentenza molto importante del 2007 che viene molto citata sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, la sentenza sul caso di Porto Marghera sui tumori del fegato. Anche lì c’era un problema di diffusione nell’ambiente di inquinanti, di sostanze e così via. E in quella sentenza la Corte di Cassazione dice una cosa molto importante, una intuizione geniale: disse di fare attenzione che i disastri sono macroeventi di due possibili diverse tipologie. C’è un primo tipo di evento che si verifica in un brevissimo lasso di tempo, ad esempio un crollo, un incendio. Il disastro della Thyssen-Krupp è un incendio che si è risolto in un brevissimo arco di tempo. Invece ci sono macroeventi, eventi, disastri che non si realizzano in un breve lasso di tempo, ma che si realizzano in un arco di tempo anche molto prolungato, che non sono nemmeno immediatamente percettibili, ma che poi compromettono l’integrità di un ambiente, della salute e così via.

Quindi avendo questa seconda interpretazione, è chiaro che il reato di disastro non era [e non è] prescritto, ma continua a consumarsi ancora oggi. Perché l’amianto c’è ancora nell’ambiente, l’amianto immesso da quella fabbrica.

Diciamo che noi abbiamo assistito a una differente impostazione del momento consumativo del reato di disastro tra Tribunale e Corte d’Appello da una parte e Corte di Cassazione dall’altra. A mio parere la Sezione Prima ha cambiato idea rispetto alla Sezione Quarta. Ha dato una nuova impostazione che naturalmente va rispettata. E quindi a questa nuova impostazione bisognerà oggi attenersi.

Mi convince di più l’impostazione della Sentenza di Porto Marghera. In sostanza tutti i disastri a cui stiamo assistendo in questi anni sono tutti disastri ormai prescritti.

P.S.: Nelle motivazioni, se la nostra lettura è corretta, si giudica inoltre che l’imputazione di disastro contestata al magnate svizzero non sarebbe stata la più adatta perché troppo bassa. E così?

R.G.: Guardi, qui il discorso è questo. Per sostenere che il disastro persiste nel tempo la Corte d’Appello aveva detto che c’erano forme di manifestazioni di questo disastro che sono le morti e le lesioni, dei lavoratori e dei residenti. La Corte di Cassazione dice che queste morti, queste lesioni sono fatti che sono oggetto di eventuali altri reati come l’omicidio e le lesioni, ma non fanno parte del disastro.

 

P.S.: Dunque un’altra divergenza tra i giudici di merito e Corte di Cassazione?

R.G: Il dire che il reato di disastro è punito meno severamente rispetto all’omicidio è dire una cosa ovvia. Però il problema qual è? Che questo processo, definito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza di prescrizione, attiene soltanto a una delle imputazioni del processo Eternit.

Sin dall’inizio il processo ha avuto due imputazioni: il disastro e l’omicidio e le lesioni.

Non c’è bisogno della Cassazione che dice che ci sono gli omicidi. I reati di omicidio sono stati addirittura iscritti prima ancora del reato di disastro nel registro delle notizie di reato.

Il problema che si è posto è che per fare il processo sul disastro non occorreva fare le perizie su tutti i singoli casi di decesso o di malattia, bastava il dato epidemiologico. Per fare invece il processo sull’omicidio bisognava fare una perizia sui singoli casi che sono tra i 2.000 e 3.000 casi. Quindi la scelta che è stata fatta è stata quella di mandare subito avanti il disastro e nel frattempo fare le perizie sui singoli casi.

Tanto è vero che le perizie su un grosso numero di singoli casi si sono concluse . E quindi è potuto partire il secondo processo.

P.S.: Sono due processi con un andatura e velocità diverse…

R.G.: Stiamo parlando del rinvio a giudizio per omicidio volontario di 258 persone. Che sono poi solo una parte.

Perché c’è anche una “Eternit-ter” che è ancora in fase di indagini preliminari…

 

——————————————-

 

JOBS ACT: LE MODIFICHE IN MATERIA DI ISPEZIONI E FORMAZIONE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

05 marzo 2015

di Tiziano Menduto

 

Il Jobs Act e i decreti attuativi introducono varie novità: dall’Agenzia Unica per le ispezioni alla possibile fine dell’obbligo di formazione per i lavoratori demansionati. Ne parliamo in un’intervista con Sebastiano Calleri, responsabile sicurezza CGIL.

In questi mesi PuntoSicuro ha pubblicato diversi articoli per raccontare le conseguenze che il cosiddetto Jobs Act, la legge delega per la riforma del lavoro, potrà avere su molti temi relativi alla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Conseguenze che potranno essere, secondo i pareri, positive o negative, ma che è necessario assolutamente conoscere per comprendere la direzione e gli intenti del legislatore in materia di sicurezza.

 

Come indicato in una nostra breve news, ad esempio nei Decreti attuativi che sono stati esaminati dal Consiglio dei Ministri tenuto a Palazzo Chigi lo scorso 20 febbraio 2015 c’è un punto che potrebbe rendere facoltativo l’obbligo della formazione alla sicurezza quando si è demansionati. E ricordiamo che, Decreto 81 alla mano, l’articolo 37 sulla formazione indica invece chiaramente che la formazione deve avvenire in occasione anche del trasferimento o cambiamento di mansioni.

 

Cosa dice precisamente il Decreto attuativo relativo al demansionamento sul tema della formazione? Che succede se il Decreto attuativo dovesse essere approvato senza modifiche?

Riportiamo a questo proposito l’articolo 55 del Decreto attuativo relativo a nuovi contratti, demansionamento e precariato, nella versione discussa ma non ancora definitiva e relativamente alla formazione a seguito del cambio di mansione:

“Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.

 

Altri due punti che è necessario chiarire in merito al Jobs Act sono relativi alla Legge Delega sulla normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro di cui, a oggi, si sa poco o nulla e all’Agenzia unica delle ispezioni del lavoro a cui si fa cenno nel Jobs Act approvato a dicembre e a cui sarebbe dedicato un decreto attuativo che è ancora in fase di definitiva formulazione.

Ricordiamo brevemente quanto indicato nel Jobs Act riguardo alla delega sulla sicurezza:

“Allo scopo di conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, uno o più decreti legislativi contenenti disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese”.

 

Cosa dice il Decreto attuativo relativo all’Agenzia Unica? Quale sarà il futuro delle ispezioni del lavoro in Italia? E cosa è stato ad oggi della delega in materia di igiene e sicurezza sul lavoro?

Per dare qualche risposta a queste domande, specialmente in merito al tema del rapporto tra formazione e demansionamento, abbiamo intervistato Sebastiano Calleri, il Responsabile Salute e Sicurezza della CGIL nazionale, che nei giorni scorsi ha sollevato il problema della formazione nei lavoratori demansionati.

Oltre a rispondere alle nostre domande il dirigente sindacale si sofferma sulla Commissione di inchiesta sugli infortuni sul lavoro e illustra brevemente la posizione più generale della CGIL sulla Legge Delega per la riforma del lavoro.

Punto Sicuro: Vediamo intento di capire che cosa è successo in relazione alla Delega contenuta nel Jobs Act per legiferare in materia di tutela della sicurezza e salute secondo i criteri della semplificazione e razionalizzazione. Mi pare che ad oggi non se ne sia fatto nulla.

Sebastiano Calleri: Sì, al momento non si hanno notizie di uno sviluppo su questa Delega e la cosa può essere interpretata in vari modi. Ossia che non siano ancora maturati nel Governo intenzioni precise o orientamenti precisi, perché sappiamo che su questo c’è anche un grande dibattito che non coinvolge solo le parti sociali propriamente dette ma anche la Commissione Consultiva nazionale ex articolo 6 del D.Lgs.81/08, che su questo ha avuto un grandissimo dibattito. Se semplificare significa applicare le norme meglio, siamo d’accordo, se significa abolire ridondanze che non permettono di sviluppare un positivo clima di prevenzione e protezione e anche un positivo lavoro al loro interno siamo d’accordo, se bisogna semplificare sulla formazione e eliminare dualità di procedure siamo d’accordo. Se ci si dice se siamo d’accordo di abolire la valutazione dei rischi alle piccole e medie imprese non siamo d’accordo ovviamente.

 

P.S.: Credo che poi nel provvedimento già approvato a dicembre ci fosse già il riferimento ad un Agenzia Unica per le ispezioni.

S.C.: C’è una Delega del Jobs Act dedicata espressamente a questo. Doveva andare in Consiglio dei Ministri il 20 febbraio. Non ci è andata.

Noi abbiamo accolto positivamente questa cosa perché la bozza di Decreto rispetto all’Agenzia Unica non ci piaceva affatto e non ci piaceva per due motivi.

Uno perché è una Delega come al solito senza alcuna risorsa, cioè a invarianza della finanza pubblica. E’ una riorganizzazione basata sul risparmio economico nella quale si prevede l’abolizione, per esempio, delle Direzioni Territoriali del Ministero del lavoro e anche di quelle interregionali nell’ottica della razionalizzazione, ma in realtà di un accorpamento e di un taglio di fondi. Non si dice poi nulla di quello che l’Agenzia farà.

Vi dico solo una chicca che era contenuta nella Relazione Illustrativa del provvedimento: c’è l’ispettore, fa il suo lavoro sul territorio e quindi non ha bisogno di un ufficio per tutta la settimana, e poi torna una volta a settimana a scaricare le pratiche all’interno della struttura. Questo è un modo di vedere le cose che non ci soddisfa. Primo perché in realtà le professionalità presenti all’interno dei servizi ispettivi del Ministero del Lavoro sono professionalità multiformi che hanno bisogno di formazione e soprattutto hanno bisogno di mezzi.

Crediamo che anche questa sia un’operazione da fare con molta attenzione e molta cautela. Noi non siamo in toto contrari all’Agenzia unica e alla sua istituzione. Però si deve fare con un criterio di positività di tutti, sia per i lavoratori che ci lavorano dentro e in seconda battuta per i lavoratori che devono essere salvaguardati da questa Agenzia. Non possiamo abbassare né il livello, né il numero delle ispezioni. In realtà le ispezioni sono poche su tutto il territorio nazionale e non si raggiungono dei livelli ottimali.

E poi c’è il problema del raccordo, del coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL sotto il Ministero della Sanità. Questa è una grossa querelle che sappiamo che parte dall’ articolo 117 della Costituzione, dalla volontà di cambiarlo e da tutto quello che c’è sulle Regioni. Ha senso fare un’Agenzia che poi non integra in qualche modo anche le attività di vigilanza delle Regioni?

P.S.: Lei poi ha raccontato nei giorni scorsi di un particolare che riguarda la formazione e che sarebbe interno ad uno dei decreti attuativi del Jobs Act.

S.C.: Sì, il Decreto sulla possibilità di demansionamento. Il Decreto dice che quando un lavoratore o una lavoratrice viene demansionato, quindi posto in una mansione inferiore rispetto a quella che aveva fino a quel momento (si ricordi che questa cosa nella legislazione fino ad oggi non era possibile) la mancata informazione e formazione specifica alla mansione che si va ad effettuare, non costituisce nullità del demansionamento.

Questo vuol dire in legalese che una persona può essere demansionata e posta a fare un’altra cosa. Le faccio un esempio semplice: se un impiegato di una fabbrica metalmeccanica fa arrabbiare qualcuno e viene demansionato e viene mandato in linea produttiva, può iniziare a lavorare dal giorno dopo senza fare la formazione. E questo non significa nullità del suo mansionamento.

Quale sarà l’azienda che non approfitterà di questa questione? Non è cosa da poco.

Peraltro il Decreto 81/08 in relazione a questa cosa è molto preciso e dice che la formazione rispetto alla mansione va fatta, se non in alcuni casi specificati, contestualmente all’assunzione se non addirittura prima. Quindi in questo caso noi abbiamo un vulnus al Decreto 81/08 ma anche, secondo me, un vulnus più diretto alle condizioni di lavoro delle persone. E questa cosa non va bene.

Print Friendly, PDF & Email