SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.200 DEL 23/03/15

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SICUREZZA SUL LAVORO! KNOW YOUR RIGHTS – NEWSLETTER N.200 DEL 23/03/15

 

INDICE

  • La formazione specifica del lavoratori secondo il D.Lgs.81/08
  • Morti bianche 2015: non cambia nulla
  • Differenze tra danno da mobbing e danno da demansionamento
  • L’obbligo di manutenzione dei DPI e la norma UNI EN 365
  • L’uso sicuro delle scale portatili nell’esecuzione di impianti
  • La tutela della salute e sicurezza nel lavoro all’estero

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LA FORMAZIONE SPECIFICA DEL LAVORATORI SECONDO IL D.LGS.81/08

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.64

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Ciao Marco,

la nostra azienda ci sta facendo fare dei corsi di formazione che, anche se in parte sono interessanti, riteniamo che siano poco utili per proteggerci dai rischi che abbiamo sul lavoro.

In pratica il docente ci ha spiegato (in un corso di 4 ore) come è strutturato il Testo Unico, quali sono gli obblighi per datore di lavoro e lavoratori (ha insistito molto sugli obblighi di noi lavoratori e molto poco di quello dell’azienda…), cosa è la sorveglianza sanitaria, ecc., ma non ci ha spiegato per niente come dobbiamo comportarci durante il lavoro per evitare infortuni e malattie professionali. Inoltre non ci ha detto niente su quali sono i rischi a cui siamo sottoposti nel nostro lavoro e che effetto possono avere sulla nostra salute.

Il nostro RLS ha richiesto un corso di formazione proprio su questi aspetti e sui rischi a cui siamo sottoposti.

Tu cosa ne pensi?

 

 

RISPOSTA

 

Ciao,

relativamente alle esigenze formative, le vostre richieste sono del tutto legittime e giustificate dalla normativa vigente.

Infatti la normativa in vigore prevede che ai lavoratori sia erogata non soltanto informazione e formazione di tipo “generale” (sulla normativa in vigore, sull’organizzazione e sulle figure della sicurezza, su diritti e doveri dei lavoratori, ecc.), ma anche informazione, formazione e addestramento sui rischi specifici per la salute e la sicurezza a cui sono esposti i lavoratori, su quali procedure seguire e quali cautele adottare per fare fronte a questi rischi.

Sui contenuti di informazione, formazione e addestramento previsti dalla normativa vigente ti rimando a quanto riportato a seguire.

Marco

 

 

LA FORMAZIONE SPECIFICA DEL LAVORATORI SECONDO IL D.LGS.81/08

 

PRINCIPI GENERALI

 

Prima di entrare nel merito di quali devono essere i contenuti di informazione, formazione e addestramento da erogare ai lavoratori relativamente alla tutela della loro salute e sicurezza, occorre specificare quale sia il significato secondo legge dei termini “informazione”, “formazione” e “addestramento”, per meglio comprendere quali passi deve svolgere l’azienda per erogarli ai lavoratori.

 

Tali definizioni sono contenute all’articolo 2, comma 1 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni (Decreto).

In tale ambito la formazione è definita alla lettera aa), come:

processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”;

l’informazione è definita alla lettera bb) come:

complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro”;

l’addestramento è definito alla lettera cc) come:

complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”.

Pertanto l’informazione consiste nelle insieme di dati e di conoscenze (fornite attraverso comunicazioni, procedure, manuali, schede di sicurezza, cartelli segnaletici, ecc.) che consentono al lavoratore di identificare e gestire i rischi lavorativi.

La formazione è invece un processo educativo in cui deve essere presente un “docente” (il quale può essere un dirigente o un preposto, un consulente esterno, un tecnico qualificato) che deve trasferire ai lavoratori i dati e le conoscenze forniti con l’informazione, in maniera critica e consapevole, per permettere l’utilizzo ottimale delle informazioni ai fini della gestione dei rischi.

Infine l’addestramento consiste nell’insegnare nella pratica ai lavoratori a utilizzare in maniera corretta macchine e attrezzature o ad adottare in maniera corretta le procedure di lavoro. A tali fini “l’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro” (articolo 37, comma 5 del Decreto)

 

Premesso quanto sopra, occorre definire quale deve essere, secondo legge, il contenuto di informazione, formazione e addestramento.

 

L’articolo 37, comma 1 del Decreto impone che:

Il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento a:

  1. a) concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza;
  2. b) rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda”.

 

Giova ricordare che il mancato adempimento degli obblighi di cui all’articolo 37 comma 1 da parte del datore di lavoro o del dirigente è sanzionata penalmente dall’articolo 55, comma 5, lettera c) del Decreto stesso con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.200 a 5.200 euro.

 

Inoltre l’articolo 37, comma 3 prevede che:

Il datore di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in merito ai rischi specifici di cui ai titoli del presente decreto successivi al I”.

 

Pertanto già dall’analisi dei commi 1 e 3 del Decreto è evidente come la formazione non possa essere erogata solo su concetti generali, ma debba essere declinata sui rischi specifici e in particolare su quelli richiamati ai Titoli del Decreto successivi al Titolo I.

 

In merito alle modalità e ai contenuti della formazione l’articolo 37, comma 2 del Decreto stabilisce che:

La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”.

 

I contenuti dell’Accordo di cui al comma 2, emanato in data 21 dicembre 2011 verranno analizzati nel seguito.

 

 

LA FORMAZIONE PER RISCHI DI CUI AI TITOLI DEL D.LGS.81/08 SUCCESSIVI AL I

 

Come specificato dal comma 3 dell’articolo 37 sopra menzionato, i Titoli del Decreto che trattano i rischi particolari presenti nelle attività lavorative, cioè quelli successivi al Titolo I, definiscono specifici obblighi di formazione in relazione a tali rischi.

 

I rischi e le attività per i quali i Titoli successivi al I prevedono, all’interno dell’obbligo generale di cui agli articoli 36 e 37 del Decreto, informazione, formazione e addestramento specifici sono:

  • utilizzo delle attrezzature di lavoro (articolo 73);
  • utilizzo di attrezzature di lavoro che richiedono competenze particolari (articolo 71, comma 7, lettera a); articolo 73, comma 4);
  • manutenzione di attrezzature di lavoro che richiedono competenze particolari (articolo 71, comma 7, lettera b);
  • formazione sull’utilizzo di attrezzature noleggiate o concesse in uso (articolo 72, comma 2);
  • utilizzo delle attrezzature di lavoro (articolo 73);
  • utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuali (articolo 77, comma 4, lettere e), f), h);
  • utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuali “salva vita” e per di protezione dell’udito (articolo 77, comma 5);
  • impiego di sistemi di accesso in quota mediante funi (articolo 116, commi 2 e 3, allegato XXI);
  • montaggio, smontaggio, utilizzo di ponteggi (articolo 136, commi 6 e 7, allegato XXI);
  • disarmo delle armature provvisionali (articolo 145, comma 1);
  • segnaletica di salute e sicurezza (articolo 164);
  • movimentazione manuale dei carichi (articolo 169);
  • utilizzo di videoterminali (articolo 177);
  • agenti fisici (articolo 184);
  • esposizione al rumore (articolo 191, comma 1, lettera b); articolo 192, comma 1, lettera d); articolo 195);
  • esposizione alle vibrazioni (articolo 203, comma 1, lettera f));
  • esposizione ad agenti chimici (225, comma 8; articolo 226, comma 2; articolo 227; articolo 229, comma 3);
  • esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni (articolo 239; articolo 240, comma 1; articolo 242, comma 3);
  • esposizione all’amianto in attività di rimozione o demolizione (articolo 257; articolo 258);
  • esposizione ad agenti biologici (articolo 278);
  • ferite da taglio o di punta nel settore ospedaliero (articolo 286-quater, comma 1, lettere a) e f); articolo 286-sexies, comma 1, lettere f) e g));
  • atmosfere esplosive (articolo 294-bis).

 

 

LA FORMAZIONE SECONDO L’ACCORDO STATO REGIONI DEL 21/12/11

 

Relativamente alla necessità (obbligo) di erogare ai lavoratori non solo una formazione generica, ma anche una formazione specifica e dettagliata in merito ai rischi specifici che sono chiamati ad affrontare, costituisce riferimento normativo anche l’Accordo tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la formazione dei lavoratori ai sensi dell’articolo 37, comma 2, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Repertorio atti n.221/CSR 21 dicembre 2011 (Accordo).

 

L’Accordo è richiamato dall’articolo 37, comma 2 del Decreto che stabilisce che:

La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo

e pertanto ha valore legale e, come l’articolo 37 del Decreto costituisce obbligo penale per datore di lavoro e dirigenti.

 

L’accordo regolamenta le modalità di erogazione della formazione ai lavoratori, come richiesta dall’articolo 37 del Decreto.

In merito all’articolazione del percorso formativo l’Accordo specifica al punto 4 che:

Il percorso formativo di seguito descritto si articola in due moduli distinti i cui contenuti sono
individuabili alle lettere a) e b) del comma 1 e al comma 3 dell’articolo 37 del D.Lgs. n. 81/08
”.

In particolare l’Accordo distingue tra formazione generale e formazione specifica.

 

La formazione generale deve avere la durata di 4 ore per tutte le tipologie lavorative, “deve essere dedicata alla presentazione dei concetti generali in tema di prevenzione e sicurezza sul lavoro” e deve avere come argomenti i “concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti, doveri e sanzioni per i vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo e assistenza”.

 

La formazione specifica invece deve essere erogata “in funzione dei rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda. Tali aspetti e i rischi specifici di cui ai Titoli del D.Lgs.81/08 successivi al I costituiscono oggetto della formazione”.

Tra i contenuti della formazione specifica devono rientrare, in quanto esplicitamente indicati dall’Accordo i seguenti:

  • rischi infortuni;
  • meccanici generali;
  • elettrici generali;
  • macchine;
  • attrezzature;
  • cadute dall’alto;
  • rischi da esplosione;
  • rischi chimici;
  • nebbie, oli, fumi, vapori, polveri;
  • etichettatura;
  • rischi cancerogeni;
  • rischi biologici;
  • rischi fisici;
  • rumore;
  • vibrazione;
  • radiazioni;
  • microclima e illuminazione;
  • videoterminali;
  • DPI, organizzazione del lavoro;
  • ambienti di lavoro;
  • stress lavoro-correlato;
  • movimentazione manuale carichi;
  • movimentazione merci (apparecchi di sollevamento, mezzi trasporto);
  • segnaletica;
  • emergenze;
  • procedure di sicurezza con riferimento al profilo di rischio specifico;
  • procedure esodo e incendi;
  • procedure organizzative per il primo soccorso;
  • incidenti e infortuni mancati;
  • altri rischi.

L’Accordo specifica inoltre che:

La trattazione dei rischi sopra indicati va declinata secondo la loro effettiva presenza nel settore di appartenenza dell’azienda e della specificità del rischio”.

 

La durata dei corsi di formazione specifici varia in funzione del profilo di rischio della specifica azienda e risulta di 4 ore per le aziende a rischio basso, di 8 ore per quelle a rischio medio, di 12 ore per quelle a rischio alto.

La classificazione del rischio in basso, medio, alto viene fatta dall’Accordo in riferimento alla classificazione ATECO (ATtività ECOnomiche) 2002-2007 che è riportata nell’Allegato 2 dell’Accordo stesso.

 

Pertanto ai lavoratori di ogni azienda dovranno essere erogate, come minimo, 4 ore di corso di formazione generale (uguale per tutte le aziende) e 4, 8 oppure 12 ore di corso di formazione specifico (in funzione della classe di rischio aziendale).

All’interno della formazione specifica dovranno essere illustrati i rischi particolari della attività lavorativa svolta, le modalità per riconoscerli le procedure per eliminarli o ridurli.

 

L’Accordo specifica ulteriormente che:

La trattazione dei rischi sopra indicati va declinata secondo la loro effettiva presenza nel settore di appartenenza dell’azienda e della specificità del rischio […].

I contenuti e la durata sono subordinati all’esito delta valutazione dei rischi effettuata dal datore di lavoro, fatta salva la contrattazione collettiva e le procedure concordate a livello sindacale e/o aziendale e vanno pertanto intesi come minimi.

Il percorso formativo e i relativi argomenti possono essere ampliati in base alla natura e all’entità dei rischi effettivamente presenti in azienda, aumentando di conseguenza il numero di ore di formazione necessario”.

Pertanto, in funzione dell’analisi derivante dal processo di valutazione dei rischi, ogni azienda è libera di aumentare la durata della formazione in funzione del numero, della tipologia, della classificazione dei rischi, come rilevata dalla valutazione di cui sopra.

 

Relativamente all’addestramento da erogare ai lavoratori per far loro apprendere le modalità pratiche di lavoro e di utilizzo di attrezzature e Dispositivi di Protezione Individuali, l’Accordo specifica poi che

Il numero di ore di formazione indicato per ciascun settore comprende la Formazione Generale e quella Specifica, ma non l’Addestramento, così come definito all’articolo 2, comma 1, lettera cc), del D.Lgs.81/08, ove previsto”.

Pertanto, oltre alla formazione con durata come sopra definita, l’azienda dovrà erogare in aggiunta anche specifico addestramento relativo alle modalità pratiche di lavoro per eliminare o ridurre i rischi. La durata dell’addestramento non rientra in quella sopra definita, che è relativa solo alla formazione, ma viene definita (solo per specifiche attrezzature, come verrà illustrato successivamente) da un altro Accordo Stato regioni.

 

 

LA FORMAZIONE IN MERITO ALL’UTILIZZO DI PARTICOLARI ATTREZZATURE DI LAVORO

 

Occorre inoltre considerare anche l’obbligo di erogare la formazione e l’addestramento specifici per i lavoratori che fanno utilizzo di attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari.

 

Tale obbligo è sancito dall’articolo 73, comma 4 del Decreto, che stabilisce che:

Il datore di lavoro provvede affinché i lavoratori incaricati dell’uso delle attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari di cui all’articolo 71, comma 7, ricevano una formazione, informazione ed addestramento adeguati e specifici, tali da consentirne l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro, anche in relazione ai rischi che possano essere causati ad altre persone”.

Il successivo comma 5 specifica che:

In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono individuate le attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione e le condizioni considerate equivalenti alla specifica abilitazione”.

 

Relativamente all’obbligo sopra richiamato, il riferimento normativo di cui all’articolo 73, comma 5 del decreto è l’Accordo ai sensi dell’articolo 4 del Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281 tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi e i requisiti minimi di validità della formazione, in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modifiche e integrazioni, Repertorio atti n.53/CSR 22 febbraio 2012 (Accordo).

 

Tale Accordo specifica che le attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione, ai sensi dell’articolo 73, comma 4 del Decreto sono:

  • piattaforme di lavoro mobili elevabili (macchine mobili destinate a spostare persone alle posizioni di lavoro, poste ad altezza superiore a 2 m rispetto a un piano stabile);
  • gru a torre (gru con braccio orientabile montato sulla parte superiore di una torre);
  • gru mobile: autogru a braccio in grado di spostarsi con carico o senza carico, che rimane stabile per effetto della gravità);
  • gru per autocarro (gru a motore comprendente una colonna, che ruota intorno a una base e un gruppo di bracci applicato alla sommità della colonna, montata di regola su un veicolo);
  • carrelli elevatori semoventi con conducente a bordo (carrelli semoventi a braccio telescopico, carrelli industriali semoventi, carrelli/sollevatori/elevatorl semoventi telescopici rotativi);
  • trattori agricoli o forestali (trattori a ruote o a cingoli, a motore, avente almeno due assi e velocità massima non inferiore a 6 km/h);
  • macchine movimento terra (escavatori idraulici, escavatori a fune, pale caricatrici frontali, terne, autoribaltabili a cingoli);
  • pompa per calcestruzzo (dispositivo, costituito da più parti estensibili, montato su veicolo capace di scaricare calcestruzzo attraverso pompaggio).

 

Per ciascuna di tali attrezzature l’Accordo individua i requisiti dei docenti, i requisiti minimi dei corsi, le modalità di erogazione della formazione e dell’addestramento.

In particolare, per ogni attrezzatura i corsi devono prevedere i seguenti moduli:

  • giuridico-normativo (con cenni di normativa generale e particolare applicabile alle specifiche attrezzature);
  • tecnico (con descrizione delle specifiche attrezzature, delle norme tecniche applicabili, delle modalità di utilizzo in sicurezza);
  • pratico (con messa in pratica a bordo delle attrezzature e sul campo delle nozioni impartite nel modulo teorico).

Per ogni attrezzatura l’Accordo definisce la durata minima in ore di ciascuno dei tre moduli.

 

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MORTI BIANCHE 2015: NON CAMBIA NULLA

 

Da Vega Engineering

www.vegaengineering.com

 

MORTI BIANCHE 2015: NON CAMBIA NULLA.

50 VITTIME REGISTRATE A GENNAIO, ERANO 51 NEL 2014.

 

Ancora 50 vittime sul lavoro nel mese di gennaio. Praticamente nulla è cambiato rispetto al 2014 quando le vittime erano 51. E’ un bilancio che fa inorridire e che, a questo punto, indispettisce chi si occupa di sicurezza sul lavoro e si trova quotidianamente da anni ad elaborare le statistiche delle morti sul lavoro.

Il fenomeno delle morti sul lavoro continui a rappresentare una vera e propria piaga nel nostro Paese.

 

Secondo Mauro Rossato Presidente dell’Osservatorio Vega Engineering di Mestre la colpa è anche della crisi che porta in azienda “professionisti” della sicurezza a prezzi stracciati, incapaci di individuare e attuare misure di prevenzione efficaci. E tutto questo accade nel nostro paese mentre gli organi di controllo sono ancora troppo assenti.

 

“E’ pericoloso pensare che investendo poco in professionalità e qualità dei servizi si possano ottenere risultati virtuosi sul fronte della sicurezza sul lavoro. E’ come aprire le porte della propria azienda al rischio di perdite umane ed economiche. Non bastano le fotocopie di documenti per la valutazione del rischio” – è il duro commento di Mauro Rossato, a seguito dell’ultima indagine, elaborata dal proprio team di ingegneri, sulla base di dati INAIL.

 

Prosegue Rossato: “Occorrono elaborazioni del fenomeno infortunistico e, ripeto, professionalità. Per questo invitiamo ancora una volta il Governo Renzi a sostenere concretamente la maggiore diffusione della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro. Perché, per ora, di concreto esistono solo i dati delle vittime della nostra Penisola”.

 

A gennaio sono stati 50 gli infortuni mortali , dei quali 33 verificatisi in occasione di lavoro. E a contare il maggior numero di vittime in occasione di lavoro a gennaio 2015 è ancora la Lombardia (7 infortuni mortali), seguita da Puglia e Lazio (4), Piemonte e Veneto (3), Abruzzo, Liguria, Marche, Toscana e Campania (2), Sicilia ed Emilia Romagna (1).

Il 12 per cento degli incidenti mortali si è verificato nel settore delle costruzioni, il 6 per cento nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione autoveicoli e motocicli

 

Appare, invece, differente la mappatura dell’emergenza morti bianche nel Paese quando l’Osservatorio Vega Engineering analizza le tragedie sulla base delle incidenze della mortalità rispetto alla popolazione lavorativa e dove a condurre le fila in questo primo mese del 2015 si trova l’Abruzzo (con un indice di incidenza pari a 4,1 contro una media nazionale di 1,5).

Sul fronte delle classifiche provinciali, poi, sono Roma e Bari ad indossare la maglia nera con 4 morti bianche, seguite da Milano, Torino, Brescia, Treviso, Varese (2).

 

Gli stranieri deceduti sul lavoro sono 6, pari al 18,2 per cento del totale.

La fascia d’età più colpita è sempre quella in cui l’esperienza dovrebbe insegnare a non esporsi al rischio (tra i 45 e i 54 anni).

“Ma è anche quella in cui probabilmente forti dell’esperienza lavorativa si abbassa con più frequenza il livello di guardia esponendosi maggiormente al rischio infortunio. Per tale ragione” – commenta Mauro Rossato – “non ci stancheremo mai di lanciare i nostri appelli per la diffusione della cultura della sicurezza sul luogo di lavoro. In tutti i settori e per tutti i lavoratori”.

 

OSSERVATORIO SICUREZZA SUL LAVORO DI VEGA ENGINEERING

Ufficio Stampa: dottoressa Annamaria Bacchin

telefono: 041 86 55 696

e-mail: bacchin@vegaengineering.com

 

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DIFFERENZE TRA DANNO DA MOBBING E DANNO DA DEMANSIONAMENTO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

 

E’ possibile distinguere con estrema precisione tra “danno da mobbing” e “danno da demansionamento”.

L’incipit ci viene dato con estrema chiarezza dal Consiglio di Stato il quale, con sentenza del 12/01/15, individua i tratti differenziali delle due fattispecie.

 

Il danno da mobbing si verifica tutte le volte in cui è possibile accertare un intento persecutorio posto in essere dall’Amministrazione nei confronti del dipendente, ossia un disegno preordinato alla vessazione e alla prevaricazione verificabile da parte del Giudice amministrativo anche mediante poteri officiosi.

Nello specifico: “l’accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non permette di per sé di affermare l’esistenza del mobbing, se il dipendente non allega ulteriori elementi idonei a dimostrare l’esistenza effettiva dell’univoco disegno vessatorio in suo danno”.

 

Il danno da demansionamento, o dequalificazione, non si sovrappone al danno da mobbing, ma se ne distingue nettamente.

Tale danno, laddove comprovato in giudizio da dichiarazioni scritte di colleghi e/o altra documentazione a supporto, abilita il dipendente a proporre la domanda risarcitoria (e a ottenerne l’accoglimento) in quanto ben può essere causa di danni morali e professionali indipendentemente dall’esistenza conclamata del mobbing.

 

Anzi: in tema di dequalificazione (la fattispecie può avere inizio con un’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle contrattualmente pattuite) il Giudice del merito può desumere l’esistenza del danno avente natura patrimoniale e non patrimoniale (l’onere di allegazione è sempre posto in capo al lavoratore) quantificandolo in via equitativa in base agli elementi di fatto inerenti la qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione.

 

Appare pertanto intuitivo che, in tutte le ipotesi nelle quali il dipendente percepisca l’esistenza di gravi ripercussioni mobizzanti a suo danno o, più semplicemente, la presenza di un mutamento “in peius” delle proprie mansioni, dovrà premurarsi di organizzare tutto quel compendio probatorio atto a dimostrare in giudizio l’esistenza dell’una o dell’altra condotta datoriale.

 

Avvocato Francesco Pandolfi:

cellulare: 328 60 90 590

e-mail: francesco.pandolfi66@gmail.com

 

La Sentenza del Consiglio di Stato del 12 gennaio 2015 è consultabile al link:

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=YJMKOUL4X3E2OCEJJA6W5PZ3AI&q

 

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L’OBBLIGO DI MANUTENZIONE DEI DPI E LA NORMA UNI EN 365

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

10 marzo 2015

di Tiziano Menduto

 

I Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) devono mantenere le capacità protettive per tutto il periodo del loro impiego. I DPI delle vie respiratorie, i DPI anticaduta e la norma UNI EN 365. Per i DPI anticaduta è richiesta un’ispezione almeno annuale.

 

Per parlare di manutenzione dei DPI (qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo, secondo l’articolo 74 del Testo Unico D.Lgs.81/08) è necessario innanzitutto dare qualche coordinata di riferimento normativa.

Il Capo II (Uso dei dispositivi di protezione individuale) del Titolo III del Testo Unico precisa chiaramente gli obblighi del datore di lavoro in merito alla scelta del DPI, alle condizioni in cui devono essere utilizzati, ai requisiti necessari.

Inoltre scrive che il datore di lavoro (articolo 77, comma 4) deve mantenere in efficienza i DPI e ne deve assicurare le condizioni d’igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante.

Insomma i DPI (dove con “individuale” si intende che il dispositivo al momento dell’uso, protegge la singola persona) non solo devono garantire la protezione del lavoratore, ma devono mantenere tale capacità per tutto il periodo del loro impiego. Ed è evidente che i dispositivi devono essere adeguatamente mantenuti in stato di efficienza anche attraverso specifiche procedure e processi controllati.

Riprendiamo, a livello esemplificativo, alcune indicazioni generali per la manutenzione di alcune tipologie di DPI tratte dai documenti pubblicati correlati a Impresa Sicura (il progetto multimediale elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL, che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013).

Riguardo ai DPI delle vie respiratorie il documento indica che si deve predisporre un programma di manutenzione degli apparecchi in funzione del tipo, dell’ambiente di lavoro, delle condizioni lavorative e dei rischi presenti. Tale programma dovrebbe comprendere:

  • l’ispezione per l’accertamento di eventuali difetti;
  • la pulizia e la disinfezione;
  • la manutenzione generale;
  • la documentazione delle attività e il mantenimento della documentazione;
  • l’immagazzinamento.

E qualora sia utilizzato un elevato numero di tali DPI si suggerisce di costituire un centro di raccolta per la conservazione e la manutenzione affidato a un addetto opportunamente istruito. Per l’immagazzinamento e la manutenzione degli apparecchi bisogna attenersi alle informazioni fornite dai fabbricanti di DPI nelle istruzioni. Dopo l’impiego tali DPI devono essere predisposti per il successivo riutilizzo (a meno che non si tratti di apparecchi monouso).

Inoltre i DPI di protezione delle vie respiratorie devono essere ispezionati dopo ogni impiego. Un apparecchio non usato con regolarità, ma tenuto a disposizione per l’emergenza, deve essere ispezionato non solo dopo ogni utilizzo ma anche ad intervalli di tempo regolari, in modo da essere certi che sia sempre in soddisfacenti condizioni di funzionamento.

E in generale la procedura di manutenzione dei DPI di protezione delle vie respiratorie deve prevedere:

  • pulizia;
  • disinfezione;
  • preparazione per un reimpiego;
  • prove del corretto funzionamento a intervalli stabiliti;
  • verifica a intervalli stabiliti.

Veniamo infine a parlare dei DPI anticaduta.

Il documento ricorda che ciascun componente dell’equipaggiamento anticaduta deve essere mantenuto efficiente secondo le istruzioni fornite dal fabbricante. E si raccomanda di eseguire:

  • un controllo dell’equipaggiamento prima del suo uso, al fine di assicurare che sia efficiente e che funzioni correttamente;
  • un’ispezione periodica.

Riguardo ai DPI contro le cadute dall’alto possiamo fare specifico riferimento a una norma: la norma UNI EN 365:2005.

Questa norma è la versione ufficiale della norma europea EN 365 e specifica i requisiti generali minimi per istruzioni per uso, manutenzione, ispezione periodica, riparazione, marcatura e imballaggio dei DPI, che includono dispositivi di trattenuta per il corpo, e altri equipaggiamenti utilizzati congiuntamente a un dispositivo di trattenuta per il corpo, per prevenire cadute, per accessi, uscite e posizionamento sul lavoro, per arrestare le cadute e per il salvataggio.

La norma EN 365 stabilisce dunque che ciascun DPI anticaduta sia sottoposto a regolare manutenzione e ispezione periodica e, nel caso necessario, siano effettuate le adeguate riparazioni.

La norma prevede per i DPI anticaduta:

  • la manutenzione che serve a mantenere il dispositivo in condizioni di funzionamento sicuro per mezzo di azioni preventive quali pulizia e adeguato immagazzinamento; può essere eseguita dall’utilizzatore secondo le istruzioni fornite con la nota informativa;
  • ispezione periodica, cioè l’attività da condurre con regolare periodicità (almeno ogni 12 mesi) prevedendo un’approfondita ispezione del DPI per verificare la presenza di difetti; in questo caso l’attività deve essere svolta unicamente da persona competente e nel rispetto delle procedure d’ispezione periodica del fabbricante;
  • riparazione, cioè l’attività svolta qualora insorgano dubbi o conclamati malfunzionamenti del DPI, sempre che il DPI sia riparabile; essa deve essere svolta unicamente da persona competente per le riparazioni,preventivamente autorizzata dal fabbricante, in conformità alle istruzioni da esso impartite.

Concludiamo questa breve rassegna su manutenzione e verifiche dei DPI ricordando che, nel caso dei DPI anticaduta, come richiesto dalla EN 365, la persona competente dell’ispezione periodica è la persona a conoscenza dei requisiti correnti di ispezione periodica, delle raccomandazioni e delle istruzioni emesse dal fabbricante applicabili al componente, al sottosistema o al sistema pertinente.

La norma stessa indica che questa persona deve:

  • essere in grado di identificare e valutare l’entità dei difetti;
  • avviare l’azione correttiva da intraprendere;
  • avere la capacità e le risorse per fare ciò.

 

Inoltre può essere necessario un addestramento rivolto alla persona competente da parte del fabbricante o del suo rappresentante autorizzato su DPI specifici o altro equipaggiamento, per esempio a causa della loro complessità o innovazione o dove sia fondamentale avere nozioni tecniche per lo smantellamento, il riassemblaggio o la valutazione di un DPI o di un altro equipaggiamento e può essere necessario prevedere un aggiornamento di tale addestramento a causa di modifiche e miglioramenti.

Infine una persona può essere competente per eseguire le ispezioni periodiche su un particolare modello di DPI o altro equipaggiamento o essere competente per ispezionare diversi modelli.

 

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L’USO SICURO DELLE SCALE PORTATILI NELL’ESECUZIONE DI IMPIANTI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 marzo 2015

di Tiziano Menduto

 

Misure e prescrizioni correlate all’utilizzo nei cantieri delle scale portatili per l’installazione di impianti e per i correlati lavori di assistenza. Contesti operativi, scelta delle scale da utilizzare, prescrizioni e divieti.

 

La prevenzione relativa all’uso delle scale deve essere messa in atto con idonee buone prassi nell’esecuzione di numerose attività che utilizzano varie tipologie di scale portatili: ad esempio nelle attività in cantiere di installazione di varie tipologie di impianti, come impianti elettrici, idraulici e di trattamento aria.

Per dare informazioni utili ai lavoratori torniamo a presentare le “schede di attività” allegate alle “Linee Guida per l’utilizzo di scale portatili nei cantieri temporanei e mobili” approvate dalla Regione Lombardia con Decreto n. 1819 del 5 marzo 2014 (in sostituzione delle precedenti Linee Guida approvate con Decreto n. 7738 del 17 agosto 2011).

Al tema in oggetto sono dedicate due schede informative:

  • utilizzo di scale portatili per l’esecuzione di impianti (elettrici, idraulici, trattamento aria, ecc.);
  • utilizzo di scale portatili per lavori di assistenza ai fini dell’esecuzione di impianti (elettrici, idraulici, trattamento aria, ecc.).

Riguardo alla prima scheda si descrive innanzitutto il contesto operativo.

Infatti gli interventi per l’esecuzione dei lavori relativi all’installazione di impianti comprendono attività che possono essere effettuate generalmente in ambiente chiuso, sia in luoghi con ampi spazi per il movimento che in ambienti angusti.

Ad esempio gli interventi possono consistere nell’inserimento di cavi elettrici nelle apposite canaline/tubazioni e le varie fasi di connessione e cablaggio degli elementi costituenti l’impianto elettrico. O nella posa di tubazioni e relative connessioni per impianto idraulico, gas, riscaldamento. O ancora nella posa in opera di apparecchiature e corpi illuminanti.

In tutti i casi l’intervento prevede la necessaria disponibilità di materiale e attrezzi nel punto di esecuzione della lavorazione, con l’esigenza di una facile e agevole manipolazione degli stessi da parte dell’operatore e un agevole movimento di tronco ed arti superiori in tutte le direzioni. E solitamente sono utilizzati semplici attrezzi manuali che impongono l’utilizzo delle due mani ed è quindi essenziale avere una solida base d’appoggio per i piedi e per le gambe.

E, chiaramente, l’utilizzo della scala è dovuto alla frequente necessità di posizionarsi alle diverse quote di intervento.

La prima domanda a cui rispondere è relativa alla “liceità” dell’uso delle scale: in queste attività quando è possibile utilizzare la scala portatile?

Le linee guida presentano due casi:

  • l’utilizzo della scala per l’installazione di impianti trova giustificazione per l’esecuzione di interventi limitati nell’entità e nel tempo, e qualora nel Piano Operativo di Sicurezza sia valutata e documentata la non possibilità ovvero controindicazione per motivi di sicurezza all’utilizzo di opere provvisionali, quali trabattelli, piattaforme elevabili ecc.;
  • se le condizioni di utilizzo della scala non sono aggravate dal contesto di cantiere ovvero da eventuali rischi interferenti quali mezzi di movimentazione, pericolo di caduta al di sotto del piano di appoggio, presenza di elementi lesivi al piano (ferri, casseri, ecc.).

Sono fornite poi varie informazioni sull’uso della scala portatile.

Ne riprendiamo alcune:

  • il dislivello prevedibile fra base e sommità può essere: da quota zero a quota 3 metri per lavori condotti in ambienti di civile abitazione, mentre ci possono essere altezze più elevate in ambienti industriali o di grande distribuzione commerciale;
  • funzione svolta dalla scala portatile: utilizzata generalmente come mezzo di stazionamento per lo svolgimento di attività lavorativa;
  • durata prevedibile dell’utilizzo: non superiore a 30 minuti per l’esecuzione della fase lavorativa;
  • descrizione del contesto organizzativo: lavoro individuale con l’eventuale assistenza da terra.

La scheda indica anche le giuste priorità nella scelta della tipologia di scala nelle attività indicate:

  • scala a castello autoportante dotata di corrimano e piattaforma di stazionamento protetta da parapetti;
  • scala doppia con piattaforma e “guarda corpo” per lavori condotti ad altezze inferiori a 2 m;
  • scala semplice di appoggio a gradini.

Veniamo infine alle prescrizioni e divieti riferiti alla specifica circostanza di utilizzo della scala:

  • se si opera ad altezza superiore a 2 m, utilizzare un dispositivo di posizionamento vincolato alla scala, che mantenga la persona all’interno dei montanti;
  • nelle fasi di lavoro, per il rispetto dei requisiti sia di sicurezza che di ergonomia è controindicato utilizzare le scale a pioli, ma solamente quelle a gradini;
  • il sito dove viene installata la scala deve essere sgombro e libero da interferenza per passaggio di mezzi o persone;
  • deve essere garantita una base di appoggio stabile e piana;
  • durante gli spostamenti laterali nessun lavoratore deve trovarsi sulla scala;
  • la scala deve essere utilizzata da una sola persona per volta limitando il peso dei carichi da trasportare nel rispetto della portata massima dichiarata dal costruttore;
  • in caso di utilizzo di scala semplice, questa deve essere posizionata con un angolo compreso tra i 60° e i 70° e vincolata alla base e alla sommità sui due montanti mediante sistemi antiscivolamento ed antiribaltamento;
  • le scale non devono presentare segni di deterioramento che ne compromettano la funzionalità e la stabilità;
  • l’operatore deve raggiungere una posizione ergonomicamente corretta in funzione della operatività;
  • durante la fase di fissaggio la scala deve essere trattenuta al piede;
  • è vietato sporgersi lateralmente;
  • è vietato l’uso di scale per la messa in opera delle canalizzazioni degli impianti di condizionamento, nonché di apparecchiature e corpi illuminanti, dovendo posizionare pezzi di una certa dimensione e peso, e magari eseguire qualche operazione di saldatura.

Il documento della Regione Lombardia riporta anche una scheda dedicata ai lavori di assistenza ai fini dell’esecuzione di impianti.

Ricordiamo che le attività di installazione di impianti sono spesso precedute da interventi di preparazione per la successiva realizzazione dell’impianto medesimo: ad esempio esecuzione di sottotracce, installazione di staffe di supporto ecc., successiva opera di chiusura delle tracce e dei fori con malta.

Le attività avvengono generalmente utilizzando attrezzature manuali che impongono l’utilizzo di ambedue le mani e che possono richiedere un notevole sforzo da parte dell’operatore in relazione alla resistenza offerta dalla struttura su cui si deve realizzare l’intervento.

E anche in queste attività, generalmente individuali con eventuale assistenza da terra, le scale sono spesso utilizzate come mezzo di stazionamento per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

Il documento della Regione Lombardia – Direzione Generale Sanità Decreto n. 1819 del 5 marzo 2014 “Linee Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei cantieri temporanei e mobili” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/696/607/Decreto%20n.%201819%20del%2005%2003%202014%20-%20Linee%20guida%20per%20l%27utilizzo%20di%20scale%20portatili%20nei%20cantieri%20temporanei%20e%20mobili.pdf

 

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LA TUTELA DELLA SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO ALL’ESTERO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

13 marzo 2015

 

Identificazione della normativa applicabile e problemi interpretativi e operativi. Le differenze nel caso che i lavoratori operino in Paesi UE o Paesi “extra UE”. L’applicazione delle norme ai lavoratori stranieri in Italia.

 

Nell’ambito della mia attività professionale capita sempre più spesso di interloquire con aziende o operatori della prevenzione che mi pongono quesiti relativi alla gestione del lavoratore inviato all’estero o, di converso, a quella del lavoratore inviato dall’estero in Italia a svolgere una prestazione lavorativa. Le domande poste sono, peraltro, disparate, in larga misura “sollecitate” da dinamiche economiche (legate al consolidamento di un mercato economico sempre meno nazionale e alla facilità degli spostamenti delle persone in ambito europeo ed extracomunitario) quasi mai prese in considerazione da una regolamentazione legale della salute e sicurezza sul lavoro per sua natura (penale) inderogabile e, quindi, particolarmente rigida.

Per quanto questo breve contributo non abbia certamente la pretesa di rispondere a tutti i possibili dubbi relativi al lavoro Italia-estero o estero-Italia, esso costituisce il mio tentativo di individuare in via estremamente sintetica i principali riferimenti normativi applicabili in materia, in modo che di essi si possa tener conto per risolvere le questioni che “sul campo” giornalmente emergono.

 

Il fondamentale dubbio da risolvere in questi casi è fornire la risposta alla domanda: “che Legge si applica”?; domanda non solo legittima ma quasi “obbligata”, visto che in simili casi si intersecano tra loro normative differenti, nazionali ed estere e, in particolare:

  • le Direttive comunitarie (in particolare, la 89/391/CE in materia di salute e sicurezza e la 97/71/CE in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito delle prestazioni di servizio);
  • i Regolamenti UE (593/08 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, il cosiddetto “Roma I”);
  • i principi di diritto penale;
  • i principi inderogabili in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs.81/08).

Tanto premesso, in linea di massima la Legge applicabile viene scelta, in modo convenzionale, dalle parti che stipulano il contratto. Tuttavia, va sempre ricordato che le parti possono liberamente regolare tra loro i propri rapporti economici, ma certamente non possono derogare a determinate regole, a tutela di beni di rilevanza costituzionale (come, appunto, la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori, ai quali afferiscono, rispettivamente, l’articolo 32 e l’articolo 41, secondo comma, della Costituzione).

Ma l’infortunio del lavoratore di una azienda italiana avvenuto all’estero può comportare responsabilità per il datore di lavoro e subdelega (o altro soggetto obbligato ai sensi della normativa antinfortunistica come, ad esempio, un dirigente) in Italia?

Dal punto di vista penalistico le regole di riferimento per rispondere a tale quesito si rinvengono nei primi articoli del Codice Penale. In particolare l’articolo 6 del Codice Penale dispone che: “il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, cioè in Italia, quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione”.

Prendendo ad esempio i reati con evento infortunistico (lesioni o omicidio con violazione della normativa antinfortunistica, articoli 590 e 589 Codice Penale), ciò significa che si considera commesso nel territorio dello Stato non soltanto il reato di omicidio colposo o lesioni personali quando il lavoratore si infortuna nello Stato italiano, ma anche, in caso di evento all’estero, il reato che derivi causalmente da una azione o omissione che è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato (si pensi, ad esempio, ad una incompleta valutazione dei rischi o, ancora, ad una omessa formazione).

 

La Sentenza della Corte di Cassazione Penale n. 43480 del 17 Ottobre 2014, evidenzia, in un caso di morte di un lavoratore inviato dal datore di lavoro all’estero, che è “corretta l’affermazione della giurisdizione italiana e l’individuazione del Giudice competente per territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente ascrivibile a un cittadino italiano, ossia al datore di lavoro, commesso all’estero e come tale punibile, ai sensi dell’articolo 9 del Codice Penale, comma 2, su istanza della persona offesa, nella specie sussistente essendo stata avanzata querela-denuncia dal prossimo congiunto della vittima”.

L’obbligo di sicurezza nei confronti del lavoratore italiano che svolge attività fuori dai confini nazionali ricade, quindi, sul datore di lavoro italiano, che deve assicurare idonee misure per tutelarne la salute e sicurezza, tenendo conto del noto principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, pacificamente ritenuto applicabile dalla giurisprudenza in materia di salute e sicurezza alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.

Come ribadito, solo tra le ultime, dalla Sentenza della Corte di Cassazione Penale sezione IV n. 2626 del 5 Febbraio 2014, “seppure è vero che l’articolo 2087 del Codice Civile non introduce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro, è altrettanto vero che, per la sua natura di norma di chiusura del sistema di sicurezza, esso obbliga il datore di lavoro non solo al rispetto delle particolari misure imposte da leggi e regolamenti in materia anti infortunistica, ma anche all’adozione di tutte le altre misure che risultino, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratore, salvi i casi di comportamenti o atti abnormi e imprevedibili del lavoratore medesimo, ma non di colpa di quest’ultimo. In sostanza le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a imperizia, negligenza e imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente”.

Il datore di lavoro dell’azienda o unità produttiva del lavoratore inviato all’estero deve, quindi, assicurare idonee misure per la tutela della salute e della sicurezza secondo i livelli prescritti dalle norme di prevenzione della normativa italiana, avuto riguardo al principio appena richiamato.

Ciò è ulteriormente confermato dalla circostanza che (come si evince, peraltro, dalla ampiezza delle informazioni che si trovano al riguardo sul sito dell’INAIL, al quale si rinvia per approfondimenti sul punto) il lavoratore rimane anche assicurato INAIL in Italia.

In termini pratici di fondamentale rilevanza è la programmazione e realizzazione di una corretta valutazione dei rischi, della quale, in caso di invio di lavoratori all’estero, deve fare parte integrante la considerazione dei rischi ai quali sono esposti tali lavoratori; ciò per pianificare e realizzare (nei limiti del possibile) tutte le misure che siano idonee a tutelare il lavoratore “mandato”, per ragioni produttive, fuori dall’Italia.

In tale logica il datore di lavoro italiano deve considerare i cosiddetti “rischi generici aggravati”, vale a dire i rischi concernenti le caratteristiche geografiche e climatiche della località estera, le condizioni sanitarie, le caratteristiche culturali, politiche e sociali della comunità, il rischio di guerre o secessioni e l’adeguatezza delle strutture di supporto per l’emergenza e il pronto soccorso. Di conseguenza, le misure da adottare saranno protocolli sanitari, notizie da fornire ai lavoratori relativamente alla security e simili.

A tale riguardo, va detto che le procedure “interne” utilizzate da aziende italiane che, da molti anni, svolgono attività all’estero (anche in zone a rischio pandemia e/o guerra) hanno raggiunto, come ho potuto personalmente constatare nelle mie collaborazioni professionali, livelli di grande puntualità ed efficacia, costituendo un importante patrimonio di conoscenze che andrebbe, casomai, esteso (magari divulgando tali “buone prassi” attraverso soggetti pubblici come il Ministero del lavoro, l’INAIL o le Regioni, a seguito di “validazione” da parte di tali soggetti delle esperienze aziendali) alle imprese che, non avendo tale background operativo, si accingano ad inviare maestranze all’estero.

Tornando, però, alla domanda iniziale, va sottolineato che le modalità di gestione del lavoro all’estero vanno sensibilmente differenziate, pur nel medesimo contesto normativo di riferimento, al quale si è accennato nelle precedenti righe di questo contributo, a seconda che:

  • il Paese in cui si invii il lavoratore sia “in area UE”;
  • il Paese in cui si invii il lavoratore sia in un Paese “extra UE”.

Ai lavoratori distaccati in ambito comunitario si applicano, in particolare, le disposizioni di cui alla Direttiva 97/71/CE, la quale prevede che la normativa applicabile sia quella del Paese ospitante.

In caso di invio di un lavoratore presso un Paese UE è possibile per il datore di lavoro fare affidamento su un “substrato” comune di regole che permette una sorta di reciprocità tra i regimi giuridici applicabili. Ad esempio, le parti possono concordare che si applichi interamente la normativa del Paese ospitante e il datore di lavoro che invia il lavoratore può essere relativamente tranquillo rispetto alla coerenza tra i sistemi giuridici (ad esempio la valutazione dei rischi ha sostanzialmente gli stessi contenuti nell’area dei Paesi UE). Ne deriva che qualunque sia lo Stato dell’Unione europea in cui venga svolta la prestazione, purché questo abbia recepito le Direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro, applicando la normativa locale vengono sicuramente garantite misure di prevenzione con i livelli i essenziali di tutela equivalenti a quelli italiani.

Nel caso di invio di un lavoratore in un Paese non europeo non è, invece, possibile fare affidamento su un sistema uniforme tra il Paese di provenienza ed il Paese UE.

Il datore di lavoro deve, in questo secondo caso, quindi valutare quanto le regole del Paese in cui si invia il lavoratore siano adeguatamente “sicure” per il lavoratore. Ciò perché, si ripete, anche nei Paesi extracomunitari il datore di lavoro dovrà garantire livelli di tutela equivalenti a quelli previsti dalle norme di prevenzione del nostro Paese.

Di conseguenza, nei cosiddetti “paesi a rischio”, individuabili anche in base alle informazioni reperibili sul sito del Ministero competente (Affari esteri, cosiddetta “Farnesina”), dovrà essere data particolare valenza alla valutazione dei possibili “rischi generici aggravati”. Ad esempio, in materia di requisiti di sicurezza di apparecchiature e macchine, si evidenzia che gli standard vigenti in Europa, emanati dagli organi di normazione europei CEN, CENELEC, ETSI, sono equivalenti a quelli internazionali emanati dagli organismi di normazione internazionale ISO, IEC, ITU, o a quelli recepite dagli organismi nazionali di normazione dei Paesi extraeuropei.

Un brevissimo cenno va fatto all’ipotesi “inversa” rispetto a quella sin qui considerata, corrispondente alla circostanza che l’azienda italiana si avvalga di personale straniero che lavori in Italia, la quale va inquadrata alla luce dei medesimi principi sin qui riportati, che verranno attuati in modo “simmetrico” rispetto a quanto appena esposto.

A tali lavoratori si applicherà la normativa che le parti hanno individuato come riferimento e, comunque, al lavoratore straniero operante in Italia andrà garantito dalle parti (compresa, quindi, l’azienda italiana “ospitante”) un livello di tutela coerente con quello che il nostro Paese garantisce al lavoratore italiano che opera, magari svolgendo medesime mansioni rispetto al lavoratore straniero, nella medesima azienda.

A tale ultimo riguardo (fermo restando che l’argomento meriterebbe uno specifico approfondimento, che qui, per ragioni di economia della trattazione, non è possibile effettuare) interessante appare quanto recentemente esposto dalla Suprema Corte di Cassazione (Sentenza n. 3626827 dell’agosto 2014,) nel caso di un infortunio occorso a un lavoratore di una ditta straniera (per la precisione, di nazionalità croata) in un cantiere italiano, evidenziando come rispetto alla impresa straniera: “‘imputato avesse omesso di esaminare la documentazione relativa alla sicurezza del lavoro dell’impresa appaltatrice e non avesse esercitato controlli e verifiche” in ordine alla capacità tecnico-professionale dell’azienda straniera a operare “in sicurezza”, come richiesto dalla normativa italiana (articolo 26 e Titolo IV del D.Lgs.81/08). In particolare, secondo la Corte di Cassazione, anche nei riguardi di una impresa non italiana “la posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa appaltatrice trova la sua ragion d’essere nella finalità di evitare che, attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate all’appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza. Si può, dunque, desumere dalla norma in esame una precisa regola di diligenza e prudenza che il committente dei lavori dati in appalto è tenuto a seguire e, in particolare, l’obbligo di accertarsi che la persona alla quale affida l’incarico sia, non solo munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, come si evince dal riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività che deve esserle commissionata e alle concrete modalità di espletamento della stessa. In altre parole, tale norma svolge funzione integrativa del precetto penale che sanziona il reato di lesioni colpose ponendo a carico del committente l’obbligo di garantire che anche l’impresa appaltatrice che svolge attività nella sua azienda si attenga a misure di prevenzione della cui inosservanza lo stesso committente sarà chiamato a rispondere”.

Lorenzo Fantini

Avvocato giuslavorista

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